Ripassa da Dublino il destino dell’Europa

Vogliamo immaginare che questa grande area di libero scambio che è diventata l’Unione europea, regno del mercato e del capitale, riscoprendosi invece area di democrazia reale, decida finalmente di consultare i suoi cittadini sulle proposte che intende intraprendere e che rivestono per loro carattere importante perché riformulano la stessa essenza del loro vivere civile consolidato nel tempo e che questa stessa Unione sia disposta a fare un passo indietro se il responso dei cittadini dovesse essere negativo.

Vorrebbe dire immaginare finalmente una democrazia partecipata dove anche il parere del Paese più piccolo acquisti rilievo importante e dimostrare la valenza positiva di un modello europeo che si vuole costruire effettivamente per creare paritarie e comuni occasioni di solidarietà e di sviluppo.

Purtroppo, tormento ed estasi non esistono in questo modello europeo trasformatosi, nel tempo, da mero accordo per il commercio di carbone e di acciaio a tentativo politico forzato, forse pure encomiabile, ma approssimato e confuso, incapace di scelte e oggi regno incontrastato di Banche e tecnocrazia.

Che poi il tentativo di sottrarre agli Stati nazione le loro sovranità specifiche per amministrarle per mano di una burocrazia in deficit di democrazia sia stato attuato per gradi e per via governativa, senza consultare il cittadino, è un dato ricorrente nelle procedure comunitarie che ritengono i capi di Stato e di governo, protagonisti delle assisi del Consiglio europeo, i soli abilitati a sottoscrivere le gravi decisioni che si fanno, passando al tritacarne le competenze dei loro stessi Stati nazionali.

Il mercato delle merci e delle persone, diventato mercato dei capitali e della moneta, nel tentativo di costruire artificialmente il progetto politico comune, oggi ha bisogno di un controllo sempre più’ radicale delle risorse specifiche degli stati ed i membri del club esclusivo delle finanze europee, dopo aver stabilito i criteri ed i requisiti per l’iscrizione alla speciale pagella del profitto virtuoso degli Stati, hanno deciso di sottomettere annualmente i loro bilanci nazionali al vaglio del Consiglio europeo per chiederne il consenso e l’autorizzazione alla promozione. Immaginate un Paese come ad esempio la Bulgaria, (exit iniuria…) che dovesse impugnare e bocciare il bilancio tedesco!

Che da questo tutoraggio del bilancio nazionale così operato a Bruxelles, soprattutto in conseguenza della crisi finanziaria odierna – aperta soprattutto da imprecisate agenzie di rating americane, autorizzate a sindacare sugli affari interni degli Stati membri, costretti questi a comprare a prestito dalla BCE la moneta, che non è più fabbricata dalle Banche centrali – si dovesse arrivare a inserire nelle Costituzioni nazionali norme cogenti come la clausola della parità di bilancio e il diritto della Corte di giustizia europea di sanzionare gli stati che avessero violato tale clausola, era cosa prevedibile.

Non era pero’ escluso che alcuni Paesi dovessero sottomettere il nuovo accordo sulla politica fiscale europea, il cosiddetto fiscal compact o patto di bilancio, all’approvazione dei loro cittadini tramite referendum costituzionale e, in qualche modo, così rischiare di vanificare quel colpo di genio della burocrazia europea nel tentativo ripetuto di togliere sovranità specifiche nazionali e minare alle fondamenta le basi dello Stato Nazione.

Allora, nel negoziare questo patto di bilancio, i governi, memori delle vicende del fallito trattato sulla Costituzione europea, e più recentemente della ratifica del meccanismo di salvataggio provvisorio per l’accesso ai fondi del FSP (fondo salvastati permanente) si sono costruiti una paratia protettiva decidendo, su richiesta inflessibile della Germania, che il nuovo trattato intergovernativo potesse entrare in vigore anche con la ratifica di solo 12 dei 25 Paesi proponenti, ma che tale ratifica fosse propedeutica alla concessione di assistenza finanziaria.

Da qui la convinzione che, nonostante una gran paura di eventuale bocciatura del referendum da parte irlandese, alla fine, nonostante la Storia sembri voler ripassare per la terza volta da Dublino e come nel 2001 e nel 2008 tornare a minacciare il destino dell’Unione, le esigenze contingenti di un’economia ammalata avranno ragione anche della fierezza di un Paese orgoglioso della propria indipendenza, ottenuta solo nel 1921 dopo secoli di giogo britannico e, obtorto collo, specialmente nel momento in cui il Paese si trova sotto programma di assistenza finanziaria e comincia a vedere l’uscita dal tunnel della recessione economica, il paese di Michel Collins e di Eamon De Valera dirà si’ al referendum .

A questo punto, la perfida prudenza della burocrazia europea avrà ancora una volta vanificato, ma momentaneamente il “ritorno dell’eterno eguale”, parafrasando Nietzsche, il passaggio della Storia.

Eugenio Preta