Senza dignità

Porte sbarrate ai giornalisti, sorveglianti piazzati all’ingresso, segretezza degna di un Politburo. E poi dirigenti in fuga da uscite laterali, tra studenti dell’università Antonianum seduti per terra a fumare. E silenzio tombale dei big del partito. Abituati a parlare, a contendersi il microfono e il riflettore, a chiedere qualche minuto in più per concludere l’imperdibile ragionamento, a twittare i loro pensierini, questa volta sono rimasti zitti tutti, o quasi.

È morta così la Margherita. Anzi, è ri-morta, come il papa in un titolo di “Lotta continua” che fece storia. La prima Margherita morì nel 2007, quando si sciolse per confluire nel Pd. La seconda, lo sappiamo bene, è rimasta viva, incassando giganteschi rimborsi elettorali che hanno ingrassato i conti in banca del tesoriere Luigi Lusi e quelli delle fondazioni varie dei capicorrente margheritini.

Fino a oggi: la fine alla chetichella, in un clima da 8 settembre, da tutti a casa, da esercito in rotta. Non bisognerebbe più spendere una parola. Se non fosse che anche la giornata di oggi serve a spiegare cosa sono diventati i partiti e perché la democrazia italiana è arrivata a questa agonia.

Dignità: è la parola più usata dagli ex capi margheritini all’arrivo. «Dobbiamo finire la nostra storia con dignità», dice Franco Marini. «La nostra è stata e resta una storia dignitosa», inizia il suo ultimo discorso da leader del partito Francesco Rutelli. Ma non c’è nessuna dignità in questo sipario che cala. E c’è qualcosa di simile alla vergogna, il sentimento indagato negli ultimi anni a proposito della sfera politica da Marco Belpoliti (Senza Vergogna, 2010) e da Gabriella Turnaturi (Vergogna. Metamorfosi di un’emozione, 2012). Una vergogna nascosta, però, lontana dagli occhi indiscreti dei giornalisti e delle telecamere, perché come scrive Belpoliti, «ci si vergogna di vergognarsi, poiché questo richiama l’attenzione di tutti sull’unica cosa che si vuole nascondere: l’insuccesso».

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