LE EQUAZIONI DELLA STORIA “MAGGIO 1860 : LUGLIO 1943 = DUE INVASIONI : UGUALE TE

Lo sbarco degli Americani in Sicilia fu fatto con gli stessi trucchi di Garibaldi I fattori essenziali su cui si basò la spedizione garibaldina, sia pure protetta ed aiutata in ogni senso dagli inglesi e dagli americani, furono, innanzitutto, quello di assicurarsi il favore dell’organizzazione della delinquenza locale, poi quello della “compiacenza” di alcuni generali napolitani. Allo stesso modo lo sbarco angloamericano in Sicilia nel luglio del 1943 fu progettato non senza aver preventivamente organizzato solidi contatti tra la mafia americana e quella siciliana.

La mafia siciliana ebbe compiti rilevantissimi in tutti e due
gli avvenimenti. Essa, preventivamente, influí sugli umori della popolazione,
spingendola prima a favorire lo sbarco e, poi, a collaborare con l’occupante.
E in entrambe le situazioni, per circuire una certa borghesia, fu fatto balenare
lo specchietto per le allodole dell’indipendenza dell’isola. I contatti dello
spionaggio americano con la mafia siciliana furono assicurati da Lucky Luciano,
boss della delinquenza di New York, con il patrocinio del presidente massone
Roosevelt e del ministro della Marina Knox. Materialmente i contatti furono
tenuti da Mayer Lansky, boss indiscusso del gangsterismo ebraico negli U.S.A.
Proprio quel Lansky che nel dopoguerra, unitamente a Luciano, controllerà il
mercato mondiale degli stupefacenti tra Medio Oriente, Sicilia, Cuba e Stati
Uniti. I due furono abilmente manovrati dal loro avvocato Allen Dulles, che
diresse durante tutta la guerra le operazioni di spionaggio in Europa e che
divenne il capo della CIA Luciano e Lansky, ai quali evidentemente fu promesso
in cambio ogni tipo di copertura per i loro traffici, mobilitarono per lo sbarco
in Sicilia tutti i capi mafiosi degli U.S.A.: Adonis, Costello, Anastasia, Profaci.
Costoro fecero sbarcare clandestinamente in Sicilia moltissimi emissari, che,
accolti fraternamente dai mafiosi locali, organizzarono rapidamente una vasta
rete di “uomini d’onore” a disposizione dei “liberatori”.

Lo sbarco americano fu, infatti, di una facilità estrema. Gli
americani conoscevano non solo la dislocazione delle batterie e dei reparti
italiani, ma anche i nomi degli ufficiali che li comandavano. La popolazione
civile, poi, ancora prima dell’armistizio, accolse con applausi e fiori gli
invasori, dei quali quasi il 15% di origine siciliana. I soldati italiani catturati,
inoltre, se erano siciliani venivano liberati e inviati alle loro case, mentre
gli “altri” furono avviati ad una lunga prigionia in Africa o negli Stati Uniti.
La difesa dell’isola, in realtà, non era sicuramente in grado di contrastare
efficacemente gli invasori, ma il peso determinante del facile sbarco delle
truppe angloamericane fu certamente quello della rinuncia ad inviare la flotta
italiana contro le navi alleate. La data e le località dello sbarco erano a
conoscenza del servizio informazioni italiano, ma la flotta fu trattenuta deliberatamente
nei porti ove era ancorata.

Un vero e proprio tradimento che permise alle navi inglesi
ed americane di appoggiare tranquillamente con micidiali cannoneggiamenti le
operazioni di sbarco e di avanzata delle truppe lungo tutta la costa fino a
Messina. Anche in questa invasione, quindi, l’altro fattore importante fu quella
della “compiacenza” di alcuni generali italiani, altrimenti sarebbe veramente
inspiegabile il mancato uso della flotta proprio in difesa del “sacro” territorio
della Patria. Come avvenne con l’invasione garibaldina, anche in questo caso
i piú importanti mafiosi locali, Genco Russo e Calogero Vizzini, accolsero gli
americani e da essi vennero scelti per la carica di sindaco. Non ebbero nessuna
importanza i cinquantuno delitti di cui erano accusati e il fatto che erano
analfabeti. Anche gli oltre cinquecento mafiosi confinati ad Ustica furono immediatamente
liberati e tra essi il governatore americano Charles Poletti scelse i suoi piú
validi collaboratori.

Damiano Lumia (nipote di Calogero Vizzini) diventò interprete
del Civil Affairs; Vincenzo di Carlo (boss di Raffadali) divenne responsabile
dell’ufficio requisizione grano; Michele Navarra (boss di Corleone) fu incaricato
di raccogliere gli automezzi militari abbandonati; Max Mugnani (che nel dopoguerra
diventerà boss dei narcotrafficanti) divenne depositario dei magazzini farmaceutici
americani della Sicilia. Attorno a questi personaggi di bassa manovalanza incominciarono
a ruotare altri tipi, i “politici”, pur essendo vietata nell’isola qualsiasi
attività politica. Erano questi i “separatisti” che organizzavano liberamente
pubbliche riunioni a cui partecipavano anche ufficiali americani in divisa.
Nel numero 45 (maggio 1998) della rivista trimestrale “L’Uomo Libero” cosí scrive
Piero Sella : “L’E.V.I.S., l’esercito volontario per l’indipendenza siciliana,
affianca la struttura politica separatista che agisce nelle città alla luce
del sole, con nuclei armati alla macchia che si muovono agli ordini del bandito
Giuliano. Il tutto con la benedizione U.S.A.: Scrive in quel periodo il colonnello
Donovan, capo dell’O.S.S. “la Sicilia è il cuore strategico del Mediterraneo
e il cuore strategico dell’Europa, dell’Africa, del Medio Oriente. La nostra
stessa sicurezza è legata alla libertà e alla indipendenza della Sicilia”.”
In America, intanto, incominciava a crescere l’interesse del capitale americano,
anche per le sollecitazioni del capo del movimento separatista Finocchiaro Aprile.
Vi erano anche dei comitati italo-americani, con a capo Fiorello La Guardia
e il giornalista Max Johnson, che appoggiavano il Movimento per la quarantanovesima
stella guidato in Sicilia da Calogero Vizzini e dal gangster Vito Genovese,
ufficiale dell’esercito americano. Tutto il movimento separatista veniva praticamente
foraggiato con danaro e materiale bellico dagli americani.

A questi traffici partecipava Michele Sindona, che acquistava
grano da Baldassarre Tindara (Sindaco di Regalbuto) e lo rivendeva agli angloamericani
in cambio di materiale bellico. Il movimento separatista aveva però i giorni
contati: l’accordo di Yalta mise fine alla collusione tra alleati e mafia per
l’indipendenza dell’isola. La Sicilia, con tutta l’Italia, era passata sotto
l’influenza americana. Cosí, con alcune fucilate e con qualche caffè avvelenato,
i “politici”, che non avevano piú ragione di esistere, ma anzi erano diventati
ingombranti, furono scaricati brutalmente. I “pezzi da 90”, invece, si riciclarono
e si accordarono con Roma per la gestione clientelare della politica, proprio
come avvenne dopo l’invasione garibaldina. Ma i Siciliani quella volta si ribellarono.
Il 3 agosto 1863 a Palermo fu ucciso da emissari piemontesi il generale garibaldino
Giovanni Corrao. Costui, infatti, aveva incominciato a denunciare la ferocia
del governo piemontese nell’isola “perché – diceva – la Sicilia non aveva fatto
la rivoluzione per cambiare di tirannide”. Qualche tempo prima era stata fatta
accortamente circolare la voce che il Corrao fosse un “mafioso” per precostituire
il movente ufficiale dell’omicidio. L’episodio è da ricordare perché per la
prima volta fu adoperato il termine “mafia” in un documento ufficiale, quando
il prefetto piemontese Filippo Gualterio inviò una relazione sull’accaduto al
Ministero dell’Interno.

La parola “mafia” fino ad allora non esisteva nella parlata
siciliana. Furono, dunque, i piemontesi che introdussero la parola “maffia”
per etichettare i Siciliani. La parola, forse di origine toscana, subí in seguito
il fenomeno dell’affievolimento fonetico, come è nell’uso comune in Sicilia,
e serví sia per indicare l’organizzazione delle classi popolari contro i piemontesi,
sia la bravería e l’ostentazione vistosa della prestanza fisica. In Sicilia,
dove il movimento patriota era stato quasi evanescente, si era formato il 1°
agosto 1866 un comitato segreto per organizzare un’insurrezione contro il Piemonte.
In settembre, il giorno 15, insorse l’intera cittadina di Monreale al grido
di “Viva Francesco II”. La guarnigione piemontese fu messa in fuga e subí alcune
perdite. Alle cinque del mattino del giorno successivo insorsero anche Palermo
(dove esplose una polveriera), Bagheria, Misilmeri, Piana dei Greci, Parco,
Portella della Paglia e Boccadifalco. Vennero assaltate tutte le caserme e catturate
le armi. I piemontesi furono costretti a fuggire, subendo numerosi morti e feriti.
Furono ripristinati gli stemmi borbonici e furono messe delle barricate nei
punti piú importanti. Fu occupato il tribunale di Palermo e con un pennello
il Cassaro ed il Foro Borbonico (che i piemontesi avevano ribattezzato Corso
Vittorio Emanuele e Foro Italico) ripresero i loro vecchi nomi. Un battaglione
di granatieri, sbarcato da una nave inviata da Messina, fu letteralmente fatto
a pezzi e molti cadaveri furono impiccati ai lampioni. Si combatté ferocemente
all’Ucciardone, al Castello di Mare ed al Palazzo Reale dove i piemontesi ed
i loro manutengoli si erano asserragliati. Dovunque sui muri si leggevano scritte
contro i piemontesi e si inneggiava a Francesco II ed alla “Sicilia libera”.
Il giorno 17 settembre insorsero anche Villabate, Torretta, Montelepre, Lercara
Friddi, Casteldaccia, Santa Flavia, Marineo, Reacalmuto, Aragona, Termini Imerese,
San Martino delle Scale, Corleone e Prizzi. Anche in queste città il potere
passò in mano ai cittadini col ripristino delle insegne borboniche.

Il 18 mattina sbarcarono dalla nave” Rosolino Pilo” a Palermo
oltre mille uomini al comando del capitano Acton. Partendo da corso Scinà, raggiunsero
via Maqueda e Piazza Sant’Oliva, ma qui furono assaliti all’arma bianca da migliaia
di uomini ed a stento molti riuscirono a salvarsi scappando verso il mare, dove
la “Rosolino Pilo” mitragliava gli insorti nelle strade vicino al porto. A Messina
il giorno 20 settembre le truppe piemontesi, inviate per sedare i disordini,
furono sconfitte e costrette a ripiegare. Palermo fu accerchiata il giorno 21
dalle truppe piemontesi giunte da Napoli, Cagliari, Taranto e Livorno, comandate
dall’ammiraglio Augusto Riboty. Palermo venne bombardata pesantemente dall’artiglieria
di grosso calibro di sei fregate e due corazzate che causò numerose stragi.
Reduce dalla vergogna di Lissa il vile Persano sperava di recuperare l’onore
massacrando, senza correre alcun rischio, il popolo palermitano. Altre truppe,
comandate dai generali Angioletti e Masi, giunsero nella giornata con altre
tre navi : “Washington”, “Città di Napoli” e “Principe Oddone”. Il 22 sbarcarono
altri tre battaglioni di bersaglieri con il “regio commissario con poteri straordinari”,
il generale massone Raffaele Cadorna, che subito iniziò la repressione. Le barricate
furono sventrate a cannonate e le truppe piemontesi, comandate da Cadorna, entrarono
nella città fucilando indiscriminatamente chiunque si presentasse a tiro. Palermo
ebbe in un sol giorno oltre duemila morti e circa 3.600 persone imprigionate.

Lo stesso metodo fu usato anche nelle altre cittadine. L’occupazione
di Palermo fu per Cadorna come l’occupazione di una città nemica. Si sparava
a vista contro qualsiasi passante in atteggiamento sospetto. Un ufficiale del
10° granatieri, tale Antonio Cattaneo, fece uccidere due frati che lo disturbavano
suonando le campane. Cosí fu fucilato uno storpio che infastidiva un ufficiale.
Persino finí in galera il vescovo di Monreale, il novantenne e coltissimo Benedetto
d’Acquisto, che le autorità definirono “il noto brigante d’Acquisto”. I saccheggi
e le ruberie nelle case dei cittadini erano un fatto normale da parte delle
sanguinarie truppe piemontesi, che sadicamente terrorizzavano a turno le città
ed i paesi. Si fucilò per mesi, fino al febbraio del 1867, e per mesi la popolazione
assistette al passaggio di colonne di detenuti in catene spinti a calci e bastonate
verso i luoghi di detenzione.

Antonio Pagano