Emiri, vicerè ed esattori

Avanza insinuandosi tra vallate e colline, divelle paesaggi, separa i luoghi, incide il panorama, condanna alberi e foreste, niente può resistergli, retaggio al progresso, alla fretta ed all’annientamento delle coscienze, e seziona  la memoria il viaggio, nostos personale del ritorno
Difficilmente libero,spesso irretisce nel gioco caotico di strade e rumori, dove il colore è solo artificio e tedio l’ansia dell’arrivare, ma sconvolge i riferimenti e confonde i contorni come il tempo che ingoia le ore, solidifica l’attualità, crea la storia ma richiama tutte le nostre ombre.
Cosi’ nelle corse frequenti dei nostri ritorni ci fermiamo al limitare del continente mentre il ferribot accoglie uomini e mezzi per continuare sulle onde il viaggio a ritroso, verso casa.
I peloritani ci scrutano, sconvolti viaggiatori della fretta che ,come  in un baleno, hanno attraversato un continente, i suoi sbalzi ed i suoi luoghi, gli occhi arrossati dopo aver sorbito overdosi di autostrade e caselli.
Catapultati poi di fronte all’isola, lo stretto ci rassicura come l’ultima barriera, la fortezza Bastiani tra i tartari, e ci affidiamo al noto nocchiero, lasciandoci finalmente trasportare, appoggiati alla ringhiera della tolda, nel buio della notte che non cambieremmo con nessun’altra perchè è il momento dell’arrivo, quella che ci ha riportato  a casa.
Tra le fatiche e le ansie del ritornare la Sicilia ci appare stranita, quasi pudica nel mostrarci le sue luci ancora lontane. Nella confusione della memoria ci accoglie stanca, come amante trascurata scopre le membra e ci offre l’approdo del pontile.
La distanza ha aumentato la voglia di arrivare come la chiave carica la molla dell’automobilina di latta. Fidiamo soltanto nell’approdo, preoccupati di vedere esaurirsi la carica , ma anche timorosi per quel che vedremo, per la realtà  che poi, spietata, ridimensionerà propositi e progetti ma soprattutto i ricordi.
Ma tutto è ancora là, dietro i gesti del marinaio che ci invita ad abbandonare la nave. 
Allora puoi sentirle arrivare le tue ombre. Vengono da una città che non vuole addormentarsi, dall’aria che hai cambiato per cercare di star meglio, vengono dagli angoli dei cortili. Socchiudi gli occhi e ti sembra di rivedere le schiere degli amici vocianti, i loro scherzi, i giochi della sera ormai smarriti nelle strade della vita.
Vengono da antiche confidenze, antichi sapori perduti nel tempo che è volato via.
Ma un  clacson ti risveglia dal torpore, ti scuote  dalla magia della memoria e ti riconsegna impietoso ad una realtà che non lascia più il tempo di fermarsi per accarezzare i sogni.
Vieni da lontano e presto tornerai lontano: passa veloce il tempo, specialmente quello della festa.
Vorresti a questo punto fare tutto in una sola volta, ricordare e progettare, ma ti accorgi dell’immobilità e dell’apatia, tutt’intorno.
Il sonno… raccontava Salina a De Chevalley ,spiegando come i siciliani non vogliono cambiare per la semplice ragione di ritenersi perfetti; la vanità è più forte della loro tanta miseria.
Ogni intromissione di estranei nella loro sfera quotidiana  turba la loro compiaciuta attesa del nulla. Allora ci spieghiamo tante cose e, dopo anni trascorsi a cercare di cambiare la nostra vecchia pelle ci troviamo di nuovo confrontati ad una vecchia cerimonia, quella del ritorno, del mito forse di un ritorno non  più probabile.
Ritorno che il tempo ha svilito ed annullato e che le mutate esigenze allontanano sempre più.
Ritorno vagheggiato nel lieve malessere dei cambi di stagione, al Nord sempre uguali.
La Sicilia ci ha lascito partire nulla fa per farci ritornare.
Sconvolge i luoghi e con sfrontatezza ci ripresenta gli stessi problemi, le stesse incongruenze.
Immobile e immutabile, pudica e crudele ci presenta per un attimo la sua faccia migliore per sedurci ma restare poi sempre uguale nella mancanza di decisione, nel disordine, nel caos del traffico, nelle difficoltà burocratiche, nel bizantinismo delle sue risposte , nell’immutabilità del carattere .
Abituati da lunghe dominazioni di governanti che ci erano estranei per lingua, religione e perfino per razza e sensibilità, ma anche dalle particolari condizioni climatiche di un’Isola che ignora le vie di mezzo, siamo stati educati ad un’apatia che non è ignavia ma non voglia.
Siamo riusciti a sopravvivere ad emiri  berberi, esattori bizantini e viceré spagnoli ed ancora ci immaginiamo una nuova pelle per quella vecchia cerimonia che ancora , forse , non ha smesso di illuderci.
Eugenio Preta