IL VIAGGIO INFINITO

Bruxelles, 02/11/2001

Piove, negli anticipi di inverno che mi regala il tempo, e mi accorgo di settembre nelle ansie inascoltate e negli affanni che mi cercano nelle sabbie ormai deserte.


Non si ferma la mente che va in volte e giravolte e ora libera il pensiero e vola al giardino sul mare dove si indovinano le isole.

Lontane e fuggenti prima, poi ferme sulla costa immutabile, poi vicine per onde ribollenti di schiuma e orli di palombelle frastagliate, isole nell’isola.
Raggiunge l’immaginazione il sentiero di gelsomini, il cancello di more, il campo di ulivi, infine la casa solitaria sull’altopiano di quiete, di campi interrotti da noccioli, ulivi, fichi, eucalipti, ora rovi ora frutti, vaganti di sapore di vino, abbandonati, smarriti nei muri a secco caduti nel silenzio delle vite passate e da venire, bianca dove è ora la libertà.

E così era lungo l’andare se era solo illusione il cammino, la partenza, la fatica, la nostalgia, come è illusione l’estate, la carezza di madre, l’approdo dopo mare di libeccio, i fuochi di saltimbanchi e la calia abbrustolita nelle sere di festa e di santi.
Immobile palma, ondeggia nelle foglie, sempre uguale, perenne, sopravvive e resta a immaginare chi eravamo e chi saremo, al limitare della sera, prima che il buio nasconda la valle e lontane, le luci della contrada.

In uno spazio di memoria riporta l’illusione e nostalgie viviamo noi, qui rimasti nella solitaria villa decaduta ai piedi delle colline che anticipano i racconti del mito.

Scivola il piede sul muro consunto, rotola il sasso nella valle dei vigneti della fragola, gorgoglia la fonte finalmente libera, e allora mi accorgo delle nuvole che cambiano il cielo, eccitano le ciaule ma non spaventa il cuore la minaccia di pioggia quasi benedizione ai campi, alle gemme delle arance e ai limoni sempre in attesa sugli alberi contorti dal tempo e dal sole.

Sotto la minaccia dei giganti poi diventiamo piccoli e ci stringiamo tra le coperte che sanno di vento e di mare e fermiamo i sogni che il sonno più non riesce a regalare.

Cigolava il cancello, si spalancava la strada e lasciavi alle spalle le estati e il loro gran odore di cipolle, di cetriolo, di pomodori, e nella menta che mettevi all’angolo della bocca masticavi sapori che ti perdevano.

Era illusione l’andare, il borgo senza sole, la lingua sconosciuta, il Nord lontano. Ora le voci del Tindari, nel fremere dei pini cantano la nostalgia della tua poesia, della tua terra, bagnata da tre mari: Isola odiata e saccheggiata, ora terremoto ora sudario di cemento e contraddizioni, finalmente fatamorgana, quando il cuore si accheta.

Però si contorce il pensiero, grave nell’andare, crescono gli affanni del tempo, nel lieve fastidio, la voglia delle sabbie ormai abbandonate dagli antichi amici.

Non più Isola di mostri e di portenti, frammento di civiltà antiche, ma stanca isola della mente, terra ravvicinata nello stretto, frantumata nel cemento, abbandonata nei giardini, sconvolta nella natura, rivissuta nella memoria, come novella Circe ti richiama e ti illude nel canto.

Ma quando, nel cuore della notte saliranno verso di te le voci della tua terra, non lasciarti illudere, non invocare il sogno nè il fastidio del partire. Senza lacrime allora, né ripensamento, accogli i suoni del corteo invisibile e saluta l’Isola che ti perde per sempre.

Eugenio Preta