La gloria e il declino di Aung San Suu Kyi

Alcuni stati come il Regno Unito e la Svezia hanno chiesto la convocazione urgente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per discutere le violenze in atto in Birmania:una vera e propria operazione di pulizia etnica da parte dell’esercito contro i rifugiati Rohingya che ha causato centinaia di morti e migliaia di sfollati. Sarebbe quasi obbligato l’intervento della signora Aung San Suu Kyi, leader birmana dei diritti dell’uomo, premio Nobel per la pace, premio Sakharov, pluridecorata eroina dei diritti umani, toccata oggiladdove il suo cuore dovrebbe battere più forte. Invece la signora Aung ha deciso di disertare la riunione dell’Assemblea generale dell’ONU – prevista la settimana prossima – in cui si discuterà delle violenze del governo birmano contro i rohingyas.

Nell’immaginario mediatico, Aung San Suu Kyi è una sorta di icona della democrazia; una donna piccola e minuta, non violenta ed anglofona che lotta contro la giunta militare. Possiede tutte le caratteristiche per la beatificazione popolare. Tutti gli intellettuali e i paladini dei diritti umani si erano mobilitati nel tempo. A lei erano stati dedicati articoli, reportages mediatici, persino canzoni come “Walk on” degli U2 e film come “The Lay” di Luc Besson, tanto che nel 90 riceveva il premio Sakharov e nel 1991, sempre nella logica già scritta,il Nobel per la Pace.

Se lo stesso Alto Commissario per i diritti dell’uomo dell’ONU, il discusso principe giordano Reid Raad al-Husseini ha dovuto chiedere ufficialmente al governo birmano di mettere fine alle persecuzioni e alle violenze, di contro Aung Suu Kyi non è riuscita a far altro che bollare come false le notizie provenienti dalla Birmania, aggiungendo che la disinformazione aiuta solo i terroristi dell’Abakan, l’esercito per la salvezza dei rohingyas,responsabili, con i loro attentati, dell’attuale repressione governativa.

La colomba bianca della pace mondiale ha finito la sua corsa: passata dagli anni di opposizione pacifica al potere centrale, oggi Aung è portavoce del governo oltre ad esserne Ministro degli esteri, e davanti alle persecuzioni razziste del suo governo tace, nonostante le richieste di intervento ricevute persino dal Papa e dal Dalai Lama e riesce solo ad evocare la disinformazione mediatica che proviene però dagli stessi ambienti mondiali che le avevano decretato onori e premio Nobel.

Il bollettino meteorologico riporta dunque tempo cattivo per la sfera dei diritti umani, iperuranio dove non può esserci posto per le tempeste della politica e della Storia. Altro che persecuzioni religiose però:in effetti se i rohingyas, musulmani, vengono perseguitati non è a causa della loro fede religiosa ma semplicemente perché negli anni che hanno preceduto l’indipendenza birmana del 1948 avevano militato sotto la bandiera britannica, che era quella dell’occupante. Come del resto avviene oggi anche per le popolazioni cristiane hmong del laos e del sud della Cina, che avevano combattuto prima con i francesi e poi con gli americani al momento della guerra in Indocina e poi in Vietnam.

Il credente ha tutti i diritti di mettere il suo Dio al di sopra di tutto, ma oggi cercare di spiegare tutto con la religione non sembra esatto perché impedisce, per esempio, di comprendere l’attuale caos orientale dove politica e petrolio si intrecciano e sono più determinanti di qualsiasi emergenza islamica. Lo Stato islamico infatti si serve del potente deterrente religioso solo a fini molto più terreni: abolire le frontiere stabilite dagli occidentali con gli accordi Sykes-Picot del 1916 (la spartizione tra Gran Bretagna e Francia di tutto il bacino mediorientale).

Nell’esempio delle recenti vicende della Birmania, il nuovo dogma dei diritti umani, assurto a vera e propria religione, forte del suo potente seguito mediatico, dimostra il suo fallimento e sta portando alle tradizionali divisioni manichee tra bene e male, i gentili democratici e i cattivi populisti, gli umanisti aperti e gli oscurantisti, i civilizzati ed i barbari, con la conseguenza finale che il barbaro rimane sempre l’altro.

Intanto abbiamo preso atto dell’ascesa e della caduta di Aug San Suu Kyi, non più eroina dei diritti umani, icona del vivere insieme, campionessa del buon governo strombazzata da tutti i media, ma più semplicemente soltanto donna politica pronta a difendere i suoi, più che il suo prossimo….

Ed abbiamo finalmente sfatato le tesi costruite da Paul McCartney e da Angelina Jolie che volevano convincerci che il buddismo fosse la religione più pacifica, per eccellenza.

Eugenio Preta