Una mediazione europea per risolvere la crisi catalana

L’ordine sistemico della burocrazia di Bruxelles, che usurpa il bel nome di Europa da quando ha abiurato i principi originari del trattato di Roma, è clinicamente morto. Non si può fare finta di nulla: le condizioni dei popoli e dei territori lo dimostrano in maniera lampante.

Sul piano esterno abbiamo volutamente abbandonato i seppur timidi approcci protezionisti come la tariffa doganale comune e la preferenza comunitaria, necessari oggi per far fronte alla globalizzazione selvaggia che ha invaso il pianeta; e sul piano delle politiche interne abbiamo smantellato la PAC – politica agricola comune -, le quote agricole e i calendari delle campagne dei prezzi agricoli destinati al consumo interno. Abbiamo poi distrutto la moneta comune, il sistema dell’ECU, che avremmo potuto migliorare piuttosto che sostituirlo con l’euro; abbiamo abolito il rispetto delle frontiere e le competenze nazionali in materia di immigrazione e non abbiamo nessun ruolo determinante in politica estera comune, nonostante le aspettative risposte negli uffici di un Alto rappresentante europeo che oggi è italiano e si chiama Mogherini.

I poteri degli Stati Nazione sono stati azzerati – invece di venire potenziati – con meccanismi democratici proprio per dare rilievo alle autonomie regionali. Eppure gli avvenimenti che hanno fatto seguito alla caduta del muro di Berlino avrebbero dovuto mettere in guardia le gerarchie continentali sulla necessità di operare sul lungo termine. Ma ci siamo curati solo del breve e del medio termine, in economia come in ambito politico. Così l’ex Unione Sovietica si è divisa in nove stati; la Jugoslavia si è frantumata dolorosamente in sei pezzi, alcuni dei quali oggi membri dell’Unione; la Cecoslovacchia si è scissa in due stati sovrani; la Germania di riscontro si è riunificata, ma non rimane al riparo da spinte irredentiste come quelle dei territori bavaresi.

Sono sopravvenute poi le lunghe tensioni nei paesi fiamminghi che hanno portato ad una loro separazione quasi ufficiale dal Belgio. Abbiamo vissuto il tempo del progetto di indipendenza scozzese, portato a fine da Salmond, ma fallito per poche migliaia di voti, ed ora viviamo in pieno le sequele della Brexit, in corso di realizzazione, e la fiera opposizione dei paesi Visegrad alle quote migratorie ed alle decisioni di Bruxelles fatte sulle spalle della gente.

Oggi, l’anomala indipendenza al regno di Spagna proclamata unilateralmente dalla Catalogna. Un ritratto spiacevole di un’Europa in frantumi che si completa con la disgregazione possibile del’Ucraina in tre /quattro parti; le dure rivendicazioni a carattere economico (millantando popolo, territorio e lingua), della Lombardia e del Veneto e soprattutto l’invasione migratoria, meditata e scientifica, rispetto alla quale nessun popolo è stato consultato democraticamente. Aggiungiamoci pure il triste stato in cui versano le economie di molti territori; la necrosi del tessuto industriale europeo, le de-localizzazioni, la rovina dell’agricoltura, l’importante perdita del potere d’acquisto da parte delle famiglie, la disoccupazione di massa, la mancanza di sicurezza ed ancora il fallimento dell’euro, che con le sue negatività derivanti, ha tetanizzato talmente le popolazioni che molte vorrebbero uscirne, ma non ne trovano il coraggio.

Questioni così gravi implicherebbero l’impegno della classe politica dirigente, che si dimostra capace di agire solo singolarmente, privilegiando la ricerca di poltrone e del tornaconto personale, piuttosto che l’interesse generale. Occorrerebbe a questo punto la proposta di una costituente europea, di destra e di sinistra, per riaffermare sani principi sovranisti democratici, economici, culturali identitari e sociali che sarebbero indispensabili per rilanciare un progetto comune finalmente valido.

In queste condizioni, se possiamo dolerci della crisi catalana e del modo in cui Rajoy la alimenta, non possiamo nasconderci dietro un dito e fingere di non capirne le conseguenze. La crisi catalana è sintomatica di un fallimento: quello del sistema europeo. Enunciare platealmente il valore relativo dell’incidenza della Catalogna nel prodotto interno lordo della Spagna, vorrebbe dire: occultare l’enorme indebitamento pubblico e privato, l’ insicurezza sempre crescente, una disoccupazione elevata in valore assoluto… la realtà in fin dei conti.

La risposta alla crisi sta sul filo di un rasoio: quello della pochezza del governo spagnolo e quello della leggendaria ostinazione catalana; un combinato insensato che non lascia presagire niente di buono.

Bruxelles si dimostra incapace di decifrare la posta in gioco e lo scenario conseguente, eppure soltanto l’Europa potrebbe indicarne la soluzione proponendo, ad esempio, la mediazione dei due paesi membri più vicini alla Spagna: il Portogallo – in riferimento alla sua comunità linguistica in Galizia – e la Francia, tenuto conto delle minoranze linguistiche occitane e catalane esistenti. Una soluzione che potrebbe avere una valenza positiva nel tentativo di risolvere la crisi catalana, purché i due Paesi siano rimasti neutrali e nessuno dei due si sia ancora compromesso con una presa di posizione partigiana.

Eugenio Preta