Europa: senilità e acne giovanile

Ci fu un tempo in cui l’Europa era piccola e saggia ed avanzava a piccoli passi sotto l’occhio benevolo di numi tutelari come Robert Schuman, Jean Monnet, Konrad Adenauer, Henri Spaak, Alcide De Gasperi ed era composta in vero di soli sei paesi di piccola taglia come l’Olanda, il Lussemburgo, il Belgio, l’Italia, la Francia e una Germania due volte meno grande di quanto lo sia oggi riunita.

Ma tutto cambia, anche la voracità degli appetiti e da allora l’Europa ha quadruplicato la sua espansione, si è voluta allargare ad altri ventidue paesi, rivolge le attenzioni persino a Stati dei Balcani sud-occidentali, due almeno di fede islamica conclamata, prossimi Paesi in odore di adesione all’UE. E a questo punto si è montata la testa.

Dopo trentacinque anni di politiche comuni alquanto modeste, ecco che a partire dall’atto unico del 1986, si è trasformata velocemente, si occupa di tutto: il grande mercato libero che uniformizza e comunitarizza senza remore. Così siamo riusciti a ridurre le eccellenze in agricoltura, parcellizzare i trasporti, la produzione di carbone e di acciaio, la conquista spaziale, il contenuto delle marmellate, la forma dei cetrioli e la situazione giuridica di lavoratori migranti, anche i calciatori(direttiva Bolkenstein).

Piccola ranocchia, preoccupata soprattutto di impedire che la Germania ci dichiari la 4° guerra mondiale, l’Unione è voluta diventare più dura del re travicello e ha ritenuto di doversi trasformare in super-Stato, scimmiottando gli Stati Uniti lontani.
Ma i ventotto Stati uniti dell’Europa odierna non sono ancora un solo popolo, non esiste un demos unico, non hanno un’unica lingua, non hanno tradizioni comuni, e la maggior parte di essi, anche i più piccoli, sono stati paesi coloniali che hanno posseduto vasti imperi e non possono oggi diventare improvvisamente “Lander”, così ad un battito di ciglia.

La sola cosa che i Paesi occidentali hanno in comune, a ben pensarci, sarebbe il cristianesimo, ma ormai, costituiti in Unione che più laica non si può, ne hanno piuttosto vergogna e lo hanno escluso persino dalla radici comuni. Nascondiamo ormai i crocifissi che non vorremmo più vedere neanche nelle scuole, nascondiamo i veli delle nostre suore dietro quelli delle donne musulmane, declassiamo la quaresima dietro il ramadan e copriamo le donne svestite sulle spiagge con il burkini, una specie di scafandro per bagnarsi e non mostrare il naso.

Ogni giorno i bellimbusti della tivù, misura di tutto, twittano e predicono che i populismi e i nazionalismi progrediscono pericolosamente. Arrivano persino a terrorizzare le masse imbevute di Grande fratello, Isola dei famosi e Calcio in pay tv, minacciando tempi duri per la democrazia se i partiti anti-sistema si dovessero rafforzare come avvenuto in Italia. Avvertono Parigi, Berlino e Bruxelles di attrezzarsi con sane politiche punitive per potersi confrontare con una delle peggiori crisi della democrazia dell’Unione europea.
Ma la storia dell’Unione però ci dice ben altro. I populismi non faranno certamente cambiare le usanze della gente ai Parioli a Roma, a Via dei Giardini a Milano, a Piccadilly a Londra, nel 7° Municipio di Parigi e nel Ka-de-we di Berlino. La gente chiede solo di poter vivere tranquilla a casa sua e di essere messa in condizione di conservare integre le proprie abitudini consolidate.
Probabilmente si tratta di crisi della vecchia politica tradizionale, ma anche legittima rivendicazione da parte dei popoli.

I nostri cittadini che hanno premiato i “pessimi “populismi forselo hanno fatto in opposizione alle imposizioni della burocrazia di Bruxelles in deficit di democrazia; forse vogliono solo che l’Europa non intervenga indiscriminatamente su tutto, che non travalichi le sovranità peculiari degli Stati nazione, che si occupi invece, ad esempio, di regolamentare la concorrenza tra le industrie, di sovvenzionare finalmente i nostri agricoltori, di aiutare i nostri giovani, di ristabilire la sicurezza nei quartieri.

Certamente non vogliono che l’Unione obblighi i nostri villaggi ad accogliere schiere di migranti, né che i nostri sindaci abbiano a celebrare matrimoni tra gente dello stesso sesso, ma vorrebbero che i nostri bar e ristoranti non fossero obbligati ad esporre tutta una serie di divieti, vorrebbero che gli automobilisti non siano costretti ad avere una patente listata a punti e che questa Unione non obblighi i contribuenti a pagare tasse per finanziare lo scioglimento dei ghiacciai, la morte dell’orso bianco o la scomparsa annunciata di alcune specie di uccelli.
Vogliono soltanto che l’Europa si occupi di quello che gli Stati decidano di delegarle per ottenere maggiore efficacia nei risultati: la sussidiarietà, si chiamava una volta, prima che lentamente sparisse dalla legislazione comunitaria.
Ma, d’altra parte, se alcune delle rivendicazioni degli italiani, esistono in molti Paesi: la patente a punti non esiste in Belgio, la velocità libera (consigliata, meglio) nelle autostrade tedesche, la Polonia non riconosce il matrimonio gay e l’Ungheria non accetta migranti, a che serve effettivamente la legislazione di Bruxelles e questa Unione europea?
Forse è un alibi per coltivare buoni propositi federalisti e per elaborare persino una maggioranza politica che sogni di estendere queste misure uniformi ad un territorio europeo divenuto solo un super-stato federale?

Ma allora perché tornare a votare il prossimo giugno per le elezioni europee? Se così stanno le cose, non sarebbe più semplice rinnovare semplicemente col silenzio/assenso le istituzioni tecnocratiche che già ci sono, senza dispendiose elezioni di gente che poi non incide per nulla nella vita dei suoi elettori e, vai a vedere, accompagnando pure questo voto, diventato solo apparente ma confermativo, col grido di “avanti popolo”? Vai a sapere perché….

Eugenio Preta