E la mattanza continua…

Giovanni Falcone amava la mattanza, quella dei tonni ovviamente che si faceva a Favignana. Se oggi fosse vivo, lo farei assistere ad un’altra mattanza, (non a quella umana a cui dovette assistere per forza di cose a Palermo negli anni 80/90′) ma a quella che continua a mietere morti per tumori sopratutto nell’entroterra siciliano. Quella che non sparge sangue a colpi di mitra. Perché l’ultimo eccidio lasciato in eredità dai boss di Cosa Nostra affonda il suo potenziale di morte nelle viscere della terra, decine e decine di metri sottoterra, nel silenzio della campagna siciliana.

Cannamela, Salicio, Garruba, Panche, Zimbalio, Giangagliano. Tutti nomi di cave ormai dimenticate ma che un tempo rappresentavano l’industrializzazione dell’isola, perché quelle cave all’inizio del secolo scorso erano miniere di zolfo, di salgemma. Finiti i tempi d’oro dello zolfo, cresciuti i carusi sopravvissuti allo sfruttamento, per intenderci quelli alla Rosso Malpelo, quelle miniere tornarono a diventare semplici cave.

Incustodite, abbandonate. I carusi, con 100 kg sulla schiena ad ogni risalita, arrivavano in superficie digrignando i denti mentre il sudore si mescolava alle lacrime che scendevano dagli occhi chiusi, soffocati in quel cuniculo caldissimo. E così si ammalavano presto. Di anchilostomiasi: l’anemia delle zolfare. Oggi, vorremmo dire che i carusi stanno meglio. E invece no. La anchilostomiasi ha lasciato il posto a tumori e leucemie. La Sicilia come la Campania del Casertano, è vittima degli stessi problemi. Quei cunicoli, dalla dismissione delle miniere in poi, hanno rappresentato per la malavita, per le ecomafie, un luogo bello e pronto per stoccare rifiuti di ogni genere. Presunti rifiuti tossici a Ciavolotta e Cesio a Pasquasia.

Un sottosuolo che contiene, al posto delle materie prime, rifiuti che rilasciano nel tempo la loro carica inquinante. Buchi neri scavati nella salgemma e quindi utilissimi per inghiottire ogni tipo di veleno prodotto dalla superficie. Un’occasione troppo ghiotta per i manager di Cosa Nostra che d’accordo con i cugini della Camorra campana misero su la più ricca multinazionale di smaltimento dei rifiuti.

Polveri di metallo, amianto, scorie liquide, rifiuti ospedalieri speciali e persino radiottivi attraversarono l’Europa e il Nord Italia, per finire seppellite nel Meridione. Non è la Terra dei fuochi e non è la Campania, non è l’Ilva di Taranto: nel cuore della Sicilia, la miniere un tempo ricche di zolfo sono rimaste per un trentennio a custodire nello stomaco rifiuti di ogni genere. Che oggi continuano ad uccidere nel silenzio.

Perché nel lembo di terra tra Caltanissetta, Enna e Ragusa morire di tumore è più facile che nel resto d’Italia. A Pasquasia, per anni lavorò come caposquadra un uomo d’onore, Leonardo Messina. “Cosa Nostra usava dal 1984 le gallerie sotterranee per smaltire scorie nucleari” raccontò Messina al giudice Paolo Borsellino, dopo essere diventato collaboratore di giustizia. Era il 30 giugno del 1992, pochi giorni prima che Borsellino saltasse in aria. Venticinque anni dopo in Sicilia un’altra strage continua a mietere vittime ogni giorno. In maniera più subdola, più silenziosa, ma sempre con la stessa firma: quella di Cosa Nostra.

Mauro Crisafulli