Sicilia consegna dall’ AMGOT a Badoglio: nascita dell’ EVIS

Nello stesso giorno, il 27 SETTEMBRE – a Brindisi si incontrano i generali alleati Bedell Smith, Mac Millan e Murphy con i delegati italiani Badoglio, Ambrosio, Acquarone per mettere a punto l’incontro che il capo del governo italiano Badoglio avrà con Eisenhower a Malta per la firma dell’“armistizio lungo”.
Fin dal 13 settembre, nelle quattro province che componevano il “Regno del Sud” (Taranto, Lecce, Brindisi e Bari), fu riservato un trattamento diverso da quello delle altre invase, che erano amministrate dall’ AMGOT (Allied Military Government Occupied Territories): vennero infatti poste alle dirette dipendenze della Missione Militare Alleata, installatasi proprio a Brindisi, guidata dal generale inglese Frank Mason Mac Farlane e del generale americano Taylor (che già conosciamo; Badoglio l’aveva incontrato a Roma alla vigilia dell’8 settembre).

Come primo biglietto da visita, questa Missione Militare Alleata, fece sloggiare immediatamente dall’Albergo Internazionale lo Stato maggiore italiano e il Re per alloggiarvisi. Non sappiamo se era per avvilire quella specie di governo e quel piccole re fuggiasco, ma resta il fatto che i due generali si presentarono al Re, in camiciola, scollacciati, in pantaloncini corti, e le gambe nude.

Dissero che alla Missione avrebbero partecipato organi italiani, ma ciò non rappresentava ancora un riconoscimento del governo Badoglio, poichè la Missione Militare costituiva un vero e proprio governo, e quello italiano diventava “un puro organo esecutivo, in un certo senso con Badoglio uomo di paglia” (Espinosa, Il Regno del Sud, p. 60), o meglio il servitore che poteva risparmiare molte noie.

Molto diverso era invece l’Amgot creata in Sicilia, con un’amministrazione che aveva instaurato un regime di assurda durezza. E dato che i siciliani (memori di un passato) non ne volevano sapere di andare a finire nuovamente sotto i Sabaudi, lo sviluppo dell’idea separatista stava prendendo idea in tutta l’isola nei vari partiti, rappresentati da numerose personalità eminenti, ma anche da elementi di ogni altro ceto (e come abbiamo già accennato in altre pagine, anche da comunisti e socialisti, poi decisamente sconfessati dalle direzioni nazionali dei rispettivi partiti, non appena queste si costituirono). A tale proposito, ricordiamo che il 18 dicembre 1943 ci fu la visita di Andrei Wischinsky, ministro degli Esteri di Stalin, che era a capo di una missione sovietica sull’Isola e s’incontrò segretamente con Montalbano, capo dei comunisti siciliani. Ma anche durante il pubblico incontro con Tasca, svoltosi a Palzzo Pretorio, Wischinsky ebbe cura di sottolineare che l’Urss avrebbe favorito il passaggio dell’isola dall’amministrazione dell’Amgot a quella del governo Badoglio e si sarebbe fermamente opposta alla concessione dell’indipendenza alla Sicilia. Una conferma questa, del fatto che i comunisti speravano che il “vento del Nord” di ispirazione partigiana potesse avvolgere tutta l’Italia, comprese Sicilia e Sardegna.

A guadagnarci furono poi i democristiani, costituendo il Fronte unitario siciliano (esponenti di spicco La Loggia, Restivo, Mattarella). Subito appoggiato da Badoglio prima da Bari poi da Salerno, anche se non rientrava della sua sfera territoriale.

Più tardi – forse per consolarsi – lo stesso Montalbano, in un suo scritto del 1950 (Citato in Marcello Cimino, Fine di una nazione, ed Flaccovio, Palermo 1977, pag. 17) affermò che “la Sicilia deve essere riconoscente all’Unione Sovietica se non è stata staccata dal resto dell’Italia per servire alle mire degli imperialisti americani”.
In effetti non erano gli americani a sollecitare l’indipendentismo; e poichè le relazioni tra i separatisti e gli inglesi erano intense e amorevoli, si affermò che il governo britannico favorisse il movimento antitaliano. Eden lo negò in modo manifesto ai Comuni.

La verità era che la questione siciliana rientrava in un quadro di complessi equilibri internazionali, e l’isola sarebbe servita come moneta di scambio fra gli interessi occidentali (l’isola sarebbe diventata una zona franca al centro del Mediterraneo – progetto non nuovo da Napoleone in poi) e gli interessi sovietici che non la volevano staccare dalle comunisteggianti regioni d’Italia centrale e settentrionale dove credevano che la rivoluzione era cosa fatta.
Già “i comunisti italiani distribuivano in buona fede le immaginette dell’ex seminarista georgiano, annunciandone esultanti l’imminente “venuta” (ANDREOTTI in “L’URSS vista da vicino”).
Insomma che il “baffone” una volta arrivato in Italia avrebbe messo a posto tutto lui, trasformando l’Italia in un’America!

Ma la guerra non era finita, e per i “tre grandi” che stavano spartendosi il mondo intero, la questione siciliana era poca cosa, e fu presto dimenticata. Lasciata in mano alle locali lotte intestine.
Nel 1964 Guglielmo di Càrcaci, che fu presidente della Lega giovanile separatista si espresse nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano palermitano l’Ora: “E’ vero che gli alleati subito dopo lo sbarco in Sicilia favorirono lo sviluppo del movimento indipendentista. Ma ad un certo punto, d’improvviso, fu come se non ci conoscessero più”.
Addirittura all’inizio girò la voce che in Sicilia gli Usa avrebbero fatto sventolare la stella del 49° Stato.
Anzi girava già il distintivo

E addirittura fu stampata in America una rivista in Italiano per la Sicilia,
con un nome abbastanza singolare “Nuovo Mondo”.
Il nuovo “Colombo” (all’incontrario) era Poletti, fu lui a “scoprire” la Sicilia!

Che ci sia stata una per lo meno iniziale simpatia degli anglo-americani verso le posizioni separatiste, ce lo confermano due esponenti comunisti, Franco Grasso e Giuseppe Montalbano, che accusarono il colonnello Poletti di proteggere sfacciatamente il movimento separatista (cfr. Orazio Barrese e Giacinta D’Agostino, in La guerra dei sette anni, ed Rubettino, Messina 1997, pagg. 28 e 29).
Che gli Alleati incoraggiassero i siciliani verso l’indipendenza è un fatto innegabile. Alti ufficiali baciavano fervorosamente la bandiera della Trinacria tra la folla di Palermo.

E concedevano allora agli indipendentisti protezione e larghi mezzi.
Del resto: “Ogni siciliano notava che la Carta Atlantica stabiliva che Gran Bretagna e Stati Uniti non desideravano mutamenti territoriali che non fossero d’accordo i desideri, liberamente espressi, delle popolazioni interessate. Dunque, i mutamenti territoriali erano permessi, previsti, possibili, anzi natutali. Chiederli non era un sacrilego. Ottenerli, un diritto. E ognuno concludeva: dunque con un plebiscito si finiva sotto il controllo degli Alleati”. (Cfr. Luca Cosmerio, Quel che si pensa in Sicilia (ed Saes, Catania 1947, pagg. 2 e 3).

Sappiamo però che i principi stabiliti dalla Carta Atlantica erano anche propaganda: si pensi al cinismo con cui gli Alleati lasciarono poi tutta l’Europa orientale nelle mani sovietiche contro la volontà dei popoli interessati (Polacchi, Cechi, Ungheresi, Rumeni, ecc. Ma mettiamoci anche i Siciliani, che pure loro s’ispirarono al principi della Carta Atlantica, e nemmeno prendevano in considerazione di essere venduti a Badoglio, “il peggiore dei loro nemici”. Del resto si sentivano protetti dagli anglo-americani che erano sbarcati sull’Isola. I primi fin dall’inizio Ottocento (Guerre Napoleoniche) già puntavano sulle risorse siciliane ed erano andati molto vicini all’indipendenza dell’isola, ma poi alla restaurazione si adeguarono alla geopolitica della coalizione, soprattutto austriaca.
I secondi invece non dispiaceva affatto utilizzare l’isola come una preziosa base strategica nel Mediterraneo.

Ma poi, con Stalin che faceva la voce grossa (temendo un’ingerenza nel vicino Adriatico e quindi nei Balcani) questi appoggi all’indipendentismo, sia gli Inglesi che gli Americani ufficialmente attraverso la stampa e la “Voce dell’America”, li smentirono (loro volevano solo tranquillità nelle retrovie del fronte, inoltre volevano dimostrare a Stalin il disinteresse per la Sicilia – c’era ben dell’altro ancora in gioco). Giunsero perfino a far emettere un comunicato dall’Amgot, affermando che “qualsiasi movimento separatista se causava intralci nella collaborazione dell’Italia in guerra, avrebbe approvato qualsiasi provvedimento del governo italiano per stroncarlo; perfino l’arresto e la fucilazione dei sobillatori”.
Insomma della questione indipendentista siciliana, se ne lavarono le mani come Pilato.

Passarono pochi settimane, e il 12 febbraio 1944, il generale Alexander, acconsentiva a trasferire la Sicilia sotto la giurisdizione amministrativa italiana (Governo Badoglio), pur confermando i poteri della Commissione Alleata di Controllo (che dall’isola si trasferì subito dopo a Roma in Via Veneto).
Finocchiaro Aprile, scrivendo ad Alexander, definì la sua decisione “sciagurata”. Forte che poche settimane prima (il 30 novembre) Charles Poletti indetta una riunione a Catania all’Hotel Bristol, ben sette dei nove prefetti dell’isola avevano sconsigliato alle autorità d’occupazione la restituzione della Sicilia all’Italia (i soli due favorevoli furono il prefetto di Ragusa, Cartia, e quello di Caltanissetta, Cammarata (Cfr. Sandro Attanasio, Gli anni della rabbia, pag. 104).
Amaramente Finocchiaro Aprile pochi giorni dopo al Teatro Massimo di Palermo pronunciò un aggressivo discorso, accusando di tradimento gli Alleati “Non ci aspettavamo di essere consegnati al governo Badoglio, il peggiore dei nostri nemici” … “e se ci si vuole spingere alla lotta, noi accetteremo il combattimento a oltranza”. (Citato nelle Memorie del duca di Càrcaci, pag. 62 e 63).

Inizia la lunga battaglia degli indipendentisti, con il nuovo stato italiano che ne porterà alla sbarra oltre 2000 (promotori, organizzatori, affiliati e capi – famosa la banda di Avila e di Giuliano) , il 7 marzo del 1946, sotto l’imputazione di insurrezione armata contro i poteri dello stato, distruzione di opere e mezzi dello stato, cospirazione politica mediante associazione, banda armata, istigazione, omicidi e tentati omicidi aggravati, associazione per delinquere, rapina, sequesto di persona, estorsione, occultamento di cadavere.
Insomma ancora una volta gli indipendentisti siciliani furono marchiati come “briganti”, con una parola però più moderna: “banditi”.

In effetti – dopo che l’amministrazione americana a Palermo, distaccata da quella inglese a Catania, aveva dato ai siciliani una specie di autogestione, priva di burocrazia e ricca di iniziative commerciali e industriali (il business fu astronomico) che avevano ravvivato la vita dell’isola – il ritorno dell’amministrazione italiana (per di più sotto l’odiato Badoglio) suscitava sgomento (fra l’altro con l’Italia continentale in bilico fra monarchia e repubblica, frantumata dalla litigiosità dei partiti, e pateticamente debole, visto che stava vivendo dell’elemosina dei vincitori.

Fu così che Badoglio riuscì ad avere mano libera anche sulla Sicilia. E il 19 ottobre del ’44, a mandarci il suo nuovo esercito con le divise cachi regalate dagli angloamericane ritinte in verde, a fare una strage in una manifestazione che più che politica era di ribellione per la fame, visto che ancora una volta la Sicilia per oltre un anno fu dimenticata, lasciata in mano all’anarchia e nella disperazione della fame.
Ufficialmente i morti furono una trentina, e oltre 150 feriti, ma altre fonti affermano che furono molto di più, oltre 100 i primi e diverse centinaia i secondi.
Badoglio volle perfino formare il primo nucleo di combattenti, con uomini siciliani, che però rifiutarono di rispondere alla chiamata alle armi del Regno del Sud. A dar loro una mano scesero le loro donne in piazza con il “Non si parte!”. Ne nacque una rivolta con interventi dell’esercito che in pratica mise contro anche qui italiani contro italiani . E questo infiammò gli appartenenti al movimento separatista che però si trasformarono (in base alla legge del Regno del Sud) in ribelli, cioè in “banditi”.
Il 5 gennaio a Comiso era già stata proclamata una Repubblica Siciliana che nel corso del mese organizzò una propria forza armata, l’EVIS, l’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia (ovviamente i reparti di questo esercito, furono chiamati dai badogliani: “bande”.

E FINOCCHIARO APRILE? Proprio per aver dato vita a questa organizzazione armata fu arrestato, e inviato al confino a Ponza. Tuttavia dopo la fine della guerra, con Badoglio silurato, l’anno successivo fu eletto all’Assemblea costituente. Poi il 14 febbraio 1947 durante il dibattito per la fiducia al nuovo governo, dai banchi parlamentari sferrò un violento attacco contro i democristiani accusandoli di ricoprire incarichi incompatibili a quelli di deputato; di essersi spartite e distribuite in Sicilia alcune cariche pubbliche esageratamente superpagate. Fece anche nome e cognomi. Fu costituita una Commissione d’indagine, che alla fine dei lavori scagionò completamente gli accusati.
Persa questa ultima battaglia, Finocchiaro Aprile sparì dalla scena politica. Non sparirono invece le “bande” in Sicilia.

Da notare che alle successive lezioni svoltesi il 20 aprile 1947 (così nella Costituente) il movimento indipendentista siciliano (che in questo fine ’43 aveva circa 500.000 aderenti) contava ancora 170.000 suffragi. Si affermò il Blocco del Popolo, costituito da PCI, PSI, Pd’A, con il 30,4 %, rispetto al 20,5% della DC.
Pochi giorni dopo questo risultato, il 1° maggio ci fu la enigmatica strage di Portella delle Ginestre. La “banda” (come definita da Badoglio) quindi del “bandito” Giuliano (ex colonnello dell’ EVIS, l’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia) attaccò (di fatto solo con Giuseppe Passatempo) una manifestazione di lavoratori riunitisi per festeggiare il 1° maggio. Si contarono 8 morti e una trentina di feriti. L’episodio suscitò viva impressione. La Cgil proclamò uno sciopero generale. La DC non partecipò alla protesta e la considerò un’ingerenza nella sfera della politica.
Il 23 giugno, il governo pone una taglia di 3 milioni su Giuliano e dichiara che intende stroncare ogni forma di “banditismo politico” in Sicilia.

Ci fu poi il “mistero” della morte di Giuliano e la storia della Sicilia da quel momento prese un altro corso. Una Sicilia che ottenne poi da Roma il suo formale Statuto Speciale che però era molto simile a una indipendenza di fatto. In pratica l’idea del Finocchiaro fu fatta uscire dalla porta e fatta rientrare dalla finestra, anche se in un altro modo e con altri personaggi. Roma del resto -volente o dolente- doveva sdebitarsi dell’apporto dato dai siciliani allo sbarco degli anglo americani (vedi anno 1947).

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