La Sicilia nel Vento del Sud: il separatismo siciliano 1943-1946

Amara e bellissima la Sicilia degli anni che vanno dal 1943 al 1946: vi aleggiava, palpabile, un insostenibile sogno, quello di essere Nazione finalmente padrona dei propri destini. Certo su quel sogno e sugli entusiasmi sinceri che coagulò si può non essere d’accordo, ritenerlo pura utopia e disquisire con filosofica sottigliezza, sull’esistenza o meno di una Nazione Siciliana, ma una cosa non si può negare che la stragrande maggioranza dei Siciliani sperò ardentemente che esso si realizzasse ed agì ed operò attivamente, almeno in un certo periodo, di conseguenza.

Ai soliti saccenti del suo partito sempre in ritardo nel capire le ragioni del Sud, Palmiro Togliatti fu costretto a ricordare, per evitare pericolosi abbagli, che il fenomeno separatista non poteva spiegarsi soltanto con le mene dei reazionari o dei servizi segreti stranieri, ma che esso era qualcosa di più grande.
Era uno stato d’animo generale di ribellione di tutto un popolo, il Siciliano, contro uno Stato centralista, visto come un nemico da abbattere.

La Sicilia ai Siciliani non fu, quindi, soltanto uno slogan, ma qualcosa di molto, ma molto più complesso. La mai sopita voglia d’indipendenza e di autonomia, malgrado secolari repressioni, risorgeva ora più forte che mai. I Siciliani riscoprivano vecchi simboli e vecchie bandiere. Le loro bandiere. Come quella a strisce gialle e rosse, orgogliosamente sventolata dinanzi al mondo intero per rivendicare la propria peculiare specificità. Con quei colori garrivano al vento oltre settecento anni di Storia Siciliana. Essa già sventolava al tempo dei Vespri, quando la collera popolare atterrò d’un colpo solo la tracotanza dell’occupante francese. Vecchia bandiera contrapposta alla nuova, quella tricolore, mai troppo amata.

Forse ai Siciliani bruciava ancora l’ottuso ed ingeneroso giudizio di un famoso generale italiano, che, nel ’17, aveva definito la loro isola “covo pericoloso di renitenti e disertori”. Ed invece erano stati loro ad essere traditi, fin dal giorno dopo l’entrata di Garibaldi a Palermo. Da allora considerati sempre e soltanto carne da macello, e guai a ribellarsi. Ecco perché ora all’estraneo scudo crociato sabaudo anteponevano il misterico simbolismo della Trinacria, l’enigmatico volto femminile con le tre gambe, che richiamavano i tre promontori della Sicilia classica. Quasi a voler ribadire che loro, rispetto agli altri, avevano radici e civiltà assai più antiche.

E i Siciliani si accorsero d’un tratto, con stupore, che quelle bandiere, quei simboli, quelle parole d’ordine li affratellavano, li facevano sentire veramente Nazione, facendo dimenticare feroci e secolari rivalità cittadine.
D’altronde il Movimento fu anche capace di dotarsi, al momento necessario, di un proprio braccio armato, l’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana). Che la lotta politica si sia alla fine trasformata in lotta armata, vista la posta in palio (l’Indipendenza), era forse inevitabile.
Anche perché furono in molti, e non soltanto i separatisti più estremisti, a spingere in questa direzione. E così la Sicilia, per circa tre anni, divenne l’Irlanda italiana. Stesso stillicidio di morti, stesso odio irriducibile tra le parti contendenti.

A far sì che il bel sogno divenisse un così orrido incubo, contribuirono un po’ tutti. Dagli irriducibili del separatismo, convinti di bruciare in questo modo i ponti alle spalle dei tiepidi della loro parte e degli autonomisti, e farli così confluire su posizioni più radicali; ai “proconsoli”, inviati in Sicilia dal governo italiano, che vietarono scioccamente qualsiasi manifestazione, anche la più innocua di sicilianità, spingendo infine con una brutale repressione poliziesca alla ribellione generalizzata, a questa poi rispondendo con ulteriore repressione e così di seguito, in una spirale crescente di violenza verso la guerra civile.

Dal servizio segreto americano che, vincolato agli accordi di spartizione con i Russi, cercò di screditare e macchiare la causa separatista, foraggiando e gonfiando oltremodo quel velleitario movimento della Sicilia quale Quarantanovesima Stella degli Stati Uniti; ai servizi segreti britannici, che cercarono di perseguire il vecchio disegno inglese di creare nel Mediterraneo tutta una serie di isole indipendenti (Sicilia, Pantelleria e, forse, la Sardegna) da attrarre, tramite Malta, nella loro sfera d’influenza.

A riguardo di queste macchinose mene dei servizi segreti degli Alleati, si deve alle indubbie capacità di Finocchiaro Aprile, leader indiscusso di tutti i separatisti, se le stesse furono spesso, con strategie oculatamente differenziate, rese inoffensive o addirittura strumentalizzate ai fini del Movimento Separatista.
Altro che marionette manovrate dai servizi stranieri, come ha scritto qualche storico superficiale. Anche certa destra contribuì a far precipitare la situazione. Accecata da un becero nazionalismo ottocentesco, fu “magna pars”, almeno nelle città, nelle provocazioni e nelle aggressioni dei separatisti, soprattutto giovani studenti, non sospettando minimamente di fornire i pretoriani e i mazzieri per i nuovi padroni del vapore, che incombevano all’orizzonte, i democristiani. Storia che per il Meridione si ripeterà, nei decenni a venire, purtroppo molte altre volte.

Non da meno fu una certa sinistra, che, seppure supportata da una vivace intellighenzia, non seppe far di meglio che rinchiudersi nel ghetto angusto delimitato dalle direttive del partito egemone, il partito comunista. Anzi non poche volte essa fu più realista del re, sollecitando una repressione ancora più dura. Anche questo sarà un cliché che si ripeterà più volte nella tormentata storia meridionale del dopoguerra.
E veniamo ai tanto strombazzati “oscuri” intrecci tra Separatismo, Banditismo e Mafia, che hanno fatto versare fiumi d’inchiostro a sproposito alla parte meno attenta della storiografia nostrana.

Nella Sicilia di quegli anni qualunque movimento politico di massa doveva, volente o nolente, fare i conti con il banditismo endemico e con l’onnipresente Mafia. Con il banditismo, fin quando la lotta fu circoscritta alle città ed ai grossi centri, all’inizio fu facile; ma quando con la morte di Antonio Canepa, il carismatico Comandante in Capo dell’EVIS, ucciso il 17 giugno 1945 in circostanze misteriose (ferito, lo si lasciò per ore senza soccorsi, facendolo morire dissanguato), fu giocoforza per i combattenti separatisti darsi alla macchia e salire sulle montagne, si presentò subito il problema della difficile convivenza con le bande che infestavano quei luoghi. A questo momento si fa risalire la nuova strategia dell’EVIS, guidato ora da Concetto Gallo, di guadagnare tali bande alla causa indipendentista. Come d’altronde aveva già fatto Garibaldi nel 1860.

Nell’agosto del 1945, con l’accordo detto di Ponte Sagana, le bande della Sicilia occidentale capeggiate da Salvatore Giuliano, nominato per l’occasione colonnello dell’EVIS, iniziavano la guerriglia contro le forze governative in nome della Sicilia libera. Guerriglia, che seppur spietata, fu abbastanza leale almeno fino al momento in cui Giuliano fiancheggiò l’EVIS. Poi, qualche tempo dopo la cattura di Concetto Gallo, avvenuta nella battaglia di Piano della Fiera (il canto del cigno del braccio armato separatista), Giuliano riprese la sua libertà d’azione, facendosi però irretire nelle trame della Mafia, con cui si accordò segretamente nel maggio del 1946. Accordo che doveva portarlo alla tragica e fatale giornata di Portella della Ginestra, dove bruciò d’un colpo l’enorme ammirazione popolare, che lo aveva sempre accompagnato.

Con le bande della Sicilia orientale fu tutt’altro discorso. Le più forti di esse, le temute bande Avila e Rizzo, pur fiancheggiando per un certo periodo l’EVIS, restarono bande dedite prevalentemente al saccheggio, guidate inoltre da capi sanguinari. La loro primitiva tattica di guerriglia non prevedeva di far prigionieri. Questa aberrante logica portò all’eccidio di Feudo Nobile, dove furono fucilati otto carabinieri, che si erano arresi.

L’inutile e controproducente strage portò alla rottura con l’EVIS. Più complessi i rapporti tra Mafia e Separatismo. Qualunque movimento politico, che abbia operato, operi ed opererà in Sicilia, ha rischiato, rischia e rischierà sempre di avere qualche suo ganglio vitale avviluppato dai sottili, intriganti e lunghi fili, che la Mafia tesse incessantemente per godere delle necessarie coperture. E quella politica è sempre stata ritenuta di vitale importanza, per cui vale la pena, se ne è necessario, uccidere.

Nel 1943 quello che vedono tutti è che la Mafia è in egual misura antifascista ed anticomunista ad un tempo. Essa teme come la peste i regimi totalitari, perché gli stessi implicano sempre un controllo di tipo “militare” del territorio, cosa che inevitabilmente la soffoca. Inoltre, in quei giorni, l’organizzazione mafiosa gode di una sorta di rispettabilità istituzionalizzata per il concreto aiuto prestato, tramite gli stretti collegamenti con i confratelli siculo-americani, allo sbarco delle truppe alleate. Famosa la bandiera di riconoscimento adottata: un quadrato giallo-oro con al centro una L nera. Dove la L stava per Lucky (il boss Lucky Luciano) ed allo stesso tempo per “fortuna” (in americano “lucky”). Le vaste e spontanee adesioni, di cui godé il movimento separatista fin dal primo momento, colsero alla sprovvista i vari capi-mafia. Al massimo le loro simpatie potevano andare, come andavano, al movimento fantoccio filo-americano della “Sicilia 49ª Stella” degli Stati Uniti.

(una rarità, i due distintivi che già giravano fra i separatisti che aspiravano
all’unione della Sicilia con gli Stati Uniti d’America)

Illuminante a questo riguardo la lettera aperta in tal senso di Salvatore Giuliano al Presidente Truman nel ’47, quando, dopo il patto d’intenti dell’anno precedente, piú forte era l’influenza della mafia su Giuliano.
Lascia quindi perplessi la formale adesione, nei momenti iniziali, all’ideologia ed al movimento separatista del capo dei capi, don Calogero Vizzini, malgrado la ferma opposizione di parte dei dirigenti indipendentisti. Eppure don Calogero non poteva ignorare, per i suoi stretti contatti con New York, che gli Americani avrebbero boicottato a tutti i costi la causa del separatismo. Anche la plateale pubblica adesione non rientrava nello stile comportamentale di don Calogero, per il passato sempre accuratamente defilato, come d’altronde si confà ad un vero capo-mafia.
Nemmeno l’ipotesi dell’entrata nel Movimento per cercare di condizionarlo e screditarlo non regge; questo compito sarebbe stato affidato ad altri e sotto copertura.

Ed allora? Per tentare di comprendere cosa effettivamente spinse don Calogero Vizzini ad un passo cosí grave è necessario andare al cuore di quel groviglio inestricabile di sentimenti e passioni che è la sicilianità. Fu l’appassionata e disinteressata adesione al separatismo di tanta parte della picciottería isolana a spaventare la Mafia. Per molti di quei picciotti l’affiliazione mafiosa era dovuta soltanto ad un malinteso senso di sicilianità, una sorta di sicilianità deviata. Ed ora quelle nuove parole d’ordine di una Sicilia grande, libera ed indipendente, che affascinavano gran parte di essi. Gente che fino ad allora non aveva mai avuto il senso dello Stato, considerato sempre alla stregua di un usurpatore, sentiva finalmente l’orgoglio di appartenere ad una comunità, quella Siciliana, per cui valeva la pena di vivere ed anche di morire. Se la Mafia era stata la mamma, adesso la Sicilia diventava la Mamma di tutte le mamme, cui tutto si poteva sacrificare. Ed era una passione cosí coinvolgente da trasformare un Giuliano da bandito a guerrigliero della libertà isolana, oppure di spingere delinquenti incalliti a cercare di chiudere in bellezza una vita sbagliata, come il caso della banda La Barbera, i cui componenti, al momento di essere condotti davanti al plotone d’esecuzione, grideranno ai loro carcerieri: “Faremo vedere come sanno morire i Siciliani” e poi, ancora, di fronte alle bocche dei fucili ormai puntati: “Viva la Sicilia, Viva il Separatismo, Viva Finocchiaro Aprile!”.

Questo diffuso stato d’animo spaventò la Mafia, il terrore di perdere l’humus in cui affondava storicamente le sue radici. Ed ecco il perché del comportamento di don Calogero, il Padrino dei padrini, quasi a voler dire eccoci qua, ci siamo anche noi, senza di noi non sarebbe stato possibile tutto ciò, anzi prendiamo sotto la nostra protezione il separatismo.
Era un bluff per tenere legata ancora una volta la picciottería, ma il cuore dei capi-cosche stava da tutt’altra parte. Lo si vedrà chiaramente, qualche anno dopo, quando si delineerà la nuova area politica detentrice delle leve del potere in Sicilia. Ad essa la Mafia ha già regalato Portella della Ginestra, di lí a poco l’assassinio dell’ormai ingombrante Giuliano. Le collusioni con apparati deviati dello Stato cominciarono allora.
La Mafia non condizionò mai, né tantomeno tentò di controllare o strumentalizzare, il Movimento Separatista. Non per eccesso di bontà, ma per il fondato timore di trasferire al suo interno dirompenti contraddizioni, che avrebbero finito per minare alle fondamenta la stessa struttura mafiosa.
Si limitò ad aspettare che finisse la tempesta. È stata soltanto l’adesione di facciata di Calogero Vizzini a far congetturare ad alcuni storici chissà quali segreti accordi tra la Mafia ed il Separatismo. Niente di piú sbagliato.
La lotta armata, pur se non raggiunse il suo scopo, che era l’indipendenza della Nazione Siciliana, creò le premesse con cui la parte autonomista del Movimento costrinse il governo italiano a trattare paritariamente sulla questione Siciliana, spuntando alla fine uno statuto di ampia autonomia regionale, oltre all’amnistia per i combattenti dell’EVIS. Si deve all’accortezza politica di un De Gasperi, l’aver saputo cogliere al volo (forse anche per le simpatie filo-autonomiste dovute alla sua origine trentina) l’occasione per disinnescare quella vera e propria bomba ad orologeria rappresentata dall’ideologia separatista, che a lungo andare avrebbe finito con lo sfasciare l’Italia intera.

L’autonomia concessa alla Regione Sicilia era sulla carta amplissima e come, amaramente, osservò qualche esponente separatista poteva essere piú che l’indipendenza, soltanto se si avesse avuto piú coraggio da parte degli eletti all’assemblea regionale nel rompere, pur restando unitari, i legami di una sudditanza acritica nei confronti dei poteri romani.

Poteva esserci un formidabile laboratorio politico per il riscatto delle genti del Sud.
Ma non fu cosí. Non vi fu alcun laboratorio politico, nessun riscatto e la sudditanza diventò sempre piú servile. E se qualche flebile tentativo si fece nel cercare nuove ed originali soluzioni, come il pur discutibile caso Milazzo, subito abortí a causa dei fulmini di scomunica del centralismo romano.
Si svuotava cosí nei fatti un’autonomia faticosamente conquistata. Cominciava allora l’ingabbiamento di tanti politici nel sistema perverso delle tangentopoli, la cui ragnatela, soltanto ai giorni nostri, è stata in minima parte disvelata. La Sicilianità riemerse orgogliosamente ancora una volta negli anni Ottanta quando, nell’assemblea regionale, respinse sdegnosamente la proposta di erigere, a Marsala, un monumento al “liberatore” Garibaldi ed ai suoi mille.

Quello che è troppo, è troppo.

di Orazio Ferrara