NON È POI COSÌ LONTANO

Bruxelles, 6 Marzo 1999

Nel linguaggio poetico si è soliti ricorrere alla
metafora non solo per provocare la sorpresa del
lettore o dell’ascoltatore, ma per aggiungere al
significato di una parola un valore allusivo ed
emozionale supplementare. E la metafora sembra essere
la forma ricorrente anche del linguaggio comune quando
si descrive la Sicilia o si vuole illustrare il
carattere o l’indole dei suoi abitanti: metafora che
perciò non resta, né lo potrebbe, nel limbo del
linguaggio poetico ma acquista connotazioni, realtà e
concretezza.


Diciamo Sicilia, e inevitabilmente pensiamo ai luoghi,
alle persone, ai ricordi individuali che dell’isola
hanno fatto un sentimento, un modo di essere, una
maniera di vivere e di viversi, di guardare il mondo
e, qualche volta – come è successo a noi, con la
nostra decisione di partire – anche di affrontarlo.
Sicilia come metafora del partire.

Abbiamo perciò
percorso lo spazio dei luoghi e le distanze del cuore
con un bagaglio di Sicilia che, bagaglio nostro
personale, è deposito di metafore, di archetipi, una
sorta di inesauribile immaginario collettivo con cui
bisogna confrontarsi.

E ci accorgiamo che ancora oggi Sicilia è metafora
dell’autocelebrazione: vittima e artefice di un’antico
stato di abbandono, esasperata da troppi occupanti,
tirannegiata da un clima e da un paesaggio che amano
gli eccessi, l’iperbole, non fa altro che promuovere
come pregi i guasti prodotti nel suo proprio modo di
essere dai vari fattori storici e ambientali.

Tanti sono i contrasti del paesaggio, altrettante le
contraddizioni degli uomini e delle donne, come quella
di partire con l’intenzione di essere artefici del
proprio destino, di non dover dipendere da nessuno ed
invece accorgersi che la partenza non inizia la
rinascita, ma, inesorabilmente, con il partire si
avvia la contraddizione più lampante, antesignana al
viaggio, contraria al senso stesso del partire: la
voglia di ritornare.

Così i treni del sole, con le loro terze classi, che
erano piuttosto i treni della nebbia, riempivano
Milano, Torino, Genova e le grandi città del nord di
immigrati siciliani con la stessa velocità con cui le
campagne si svuotavano, gli agrumeti si spogliavano e
la vite diventava gramigna.

E da Milano il salto in Europa diveniva cosa semplice,
specie se favorito dalla vergogna di governi che
barattavano i vagoni di carbone belga con le braccia
di lavoratori italiani, siciliani in gran parte.

Quel viaggio, difficile, complicato dalla vita e dalle
sue vicende, era però già un ritorno, un ripercorrere
a ritroso i luoghi della memoria, le distanze del
cuore.

Partire per ritornare, anche se l’isola non ci ha
aspettato, ha vissuto i cambiamenti dettati dal
divenire incontrollato, da un progresso che sconvolge
i luoghi, dal tempo che stravolge i connotati senza
minimamente occuparsi di noi, come se non fossimo mai
esistiti, perduti ormai nelle strade del mondo, nelle
pieghe del tempo. Ma partire porta in sé, per noi il
senso del ritornare. Sicilia allora, come metafora del
ritorno, metafora della memoria.

Non è poi così lontano recita il titolo che abbiamo
scelto, sottintendendo alla ricerca di noi stessi la
ricerca di qualcosa di prezioso, quasi un tesoro. E
dentro noi stessi troveremo quel tesoro sotto forma di
un’identità smarrita negli spazi della distanza e
nella memoria del ricordo: un vero e proprio tesoro
che perciò non è lontano, non ha bisogno di ricerche
spamodiche e anche se nascosto, si nega soltanto a chi
si ostina a non volerlo ricercare.

Eugenio Preta