TERRA E MONETA FRANCA: mezzi indispensabili per una vera autonomia

Chi si batte per l’autonomia siciliana sa che non chiede favori a nessuno. Chiede solo che si implementi lo Statuto del 1946, finora rimasto lettera morta.

La questione però è un’altra. Supponiamo di riuscire ad implementare lo Statuto al 100%. Le differenze tra prima e dopo dipenderebbero dalle quattro combinazione che seguono:

Autonomia puramente statutaria, con le questioni fondiaria e monetaria ambedue irrisolte (S);
Autonomia anche monetaria con moneta di tipo convenzionale (S + M);
Autonomia con Moneta Franca (S + MF);
Autonomia con moneta e terra ambedue affrancate (S + TMF).
Le differenze vengono tabulate infra.

S S + M S + MF S + TMF
Sarebbe autonomia vera? No Quasi Si Si e come!
Vi sarebbe una economia di produzione? No Si Si ma limitata dalla popolazione Illimitata
Livello di sviluppo Marginalmente superiore al presente Come le Isole Normanne 49oN 2oW Superiore Illimitato
Ritorno degli emigrati No Solo di coloro con tenore di vita inferiore alle Isole Normanne Si La Sicilia potrebbe puntare su 20 milioni e più di abitanti
Fuga di cervelli Si No No Introito netto
Aumento di “vere” infrastrutture No Si Si Illimitato
Precariato Si No No No
Corruzione Si Diminuita Infima Al lumicino
Disservizi Si No No No
Mafia Si Stenterebbe Agonizzerebbe Morirebbe
“Viaggi della speranza” sanitari Si Diminuiti Diminuiti Innecessari

Cominciamo con giustificare le risposte della colonna S.

Tutte queste utopie dipenderebbero da autorità finanziarie esterne. Una volta da Napoli (300km), poi da Roma (600km), oggi da Bruxelles (2 000km).
Il reddito da corruzione e da parassitismo continuerebbero a superare quello da produzione.
La fiscalità continuerebbe a colpire il valore aggiunto dallo sforzo personale, così scoraggiando lo sviluppo.
Il datore di lavoro più cospicuo continuerebbe ad essere la burocrazia, per cui la Sicilia continuerebbe a vivere di accattonaggio così come fa oggi.
Al principio, magari, gli uomini nuovi alle redini del governo si comporterebbero onestamente, ma a lungo andare finirebbero con l’arrendersi alle lusinghe del guadagno esente da lavoro.
E i vizi prospererebbero come non mai, a vantaggio di una malvivenza diffusa e inarrestabile.
Perchè? Perchè anche con uno Statuto attuato al 100% la Sicilia sarebbe Stato sovrano di nome ma non di fatto. Per capire le risposte alle colonne S + M, S + MF e S + TMF, è necessario analizzare, sia pur brevemente, le due grandi questioni: fondiaria e monetaria.

La Questione Fondiaria

Diamo la parola ad Adam Smith (1723-90), padre dell’economia moderna.

Non appena la superficie territoriale di un dato paese diventa proprietà privata, i terratenenti, come tutti, amano mietere dove non hanno seminato, ed esigono una rendita anche per i prodotti naturali del suolo. Il legname delle foreste, l’erba dei prati, e tutti quei frutti della terra che quando questa era in comune costavano al lavoratore solo la fatica di raccoglierli, adesso hanno un prezzo. Costui deve pagare per il permesso di raccoglierli; deve consegnare al terratenente una porzione di quello che raccoglie o produce.[1]

Da buon pragmatista britannico, Smith si ferma alla costatazione di fatto. Dà per scontato che “chi ama mietere dove non ha seminato” abbia tutti i diritti a massimizzare la rendita: o abbassando i salari dei dipendenti, o aumentando il canone degli affittuari della proprietà, o ambedue le cose quando la proprietà è grande abbastanza da permetterlo.

Da ragazzo ebbi il privilegio (che capii solo decenni dopo) di conoscere Don Cola Tampuso, un attempato contadino di Grotte (AG) che chissà come era andato a finire in quel di Cefalù (PA), dove coltivava un piccolo podere in regime di mezzadria insieme all’anziana moglie.

Nonostante che il 50% dei frutti del suo lavoro andassero a finire nelle tasche di uno che “amava mietere dove non aveva seminato”, Don Cola poteva sbarcare il lunario, dato che l’appezzamento distava da Cefalù non più di due chilometri. A distarvi dieci o più, gli intermediari gli avrebbero portato via quasi tutto il resto, lasciandogli solo il giusto per sopravvivere. Il lettore avrà riconosciuto la “legge di ferro” di David Ricardo (1772-1823).

Cerchiamo ora di capire cosa succede quando “la superficie territoriale di un dato paese diventa proprietà privata”.

Chiunque sia in grado di recintare un pezzo di terreno e chiamarlo suo, rivendica sovranità su di esso, ma solo se è in grado di difenderlo con la forza.

In regime di recintazione, quindi, sorgono due sovranità: quella del governo, che la sbandiera con vessilli, uniformi, inno nazionale, tassazione e orpelli vari, e quella dei terratenenti, che si guardano bene dallo sbandierare alcunchè, però la esercitano di fatto, come la esercitava il padrone del podere di Don Cola.

Il quale, come tutti i tagliati fuori dalla lotta per il potere, faceva il proletario, o se si vuole nullatenente. Campava, circostanze permettendo.

Ora è chiaro che uno stesso terreno non può avere due sovrani: il più forte caccerà via il più debole.

Questi i termini (fondiari; quelli monetari verranno appresso) della Questione Sociale, della quale si può leggere in Tito Livio per poi vederla fare da trasfondo in qualsiasi libro di storia diqualsiasi luogo e periodo. Quanto meno l’autore ne percepisce l’importanza come causa determinante di guerre, trattati, matrimoni dinastici, colonialismo, elezioni papali, rivoluzioni, esecuzioni capitali e chi più ne ha più ne metta, tanto più costui rivelerà al lettore attento, esolo a lui, i drammi per non dire le tragedie della sperequazione fondiaria.

Quattro ne sono le conseguenze.

La recintazione conduce, prima o poi, al latifondo. Ciò si deve alla natura umana, che ha decretato diversità individuali ma uguaglianza personale. I gestori meno abili di una proprietà non ci metteranno molto a venderla, facendola così fondere con quella di chi ci sa fare e che offre loro una certa somma. Questa è una ragione per cui nessuna “riforma” agraria basata sulla recintazione abbia mai avuto successo.
Il latifondo deprime i salari tanto di chi vi lavora dentro quanto fuori, dato che spinge il margine di coltivazione sempre più lontano dai centri di consumo. Derrate pagate €0.06/kg alla produzione si rivendono a €1,20/kg al mercato. Ecco una seconda ragione del fallimento delle cosiddette “riforme” agrarie. La distanza delle proprietà dai centri di consumo le rendono antieconomiche.
Per massimizzare la rendita, il ‘sovrano’ latifondista deve poter contare su un pool di disoccupati, così da poter mantenere i salari bassi, e su tariffe doganali che lo proteggono dalla competizione, così da poter mantenere i prezzi di vendita alti. In genere ottiene i due scopi quando o lui o i suoi colleghi sono in grado di manipolare le politiche governative. Ecco perchè la disoccupazione non è mai stata eliminata.
Man mano che la società si va dividendo in un gruppo poderoso (ma necessariamente piccolo) di terratenenti e uno spodestato, ma in continuo aumento, di nullatenenti, è la lotta di classe, che non è affatto invenzione marxista: basta Tito Livio per chiunque la voglia capire. Lo spargimento di sangue, sia di guerra intestina sia estera provocata da chi vuole proteggere i privilegi ingiusti a tutti i costi, èinevitabile. Si potrebbe scrivere un trattato, però ci limiteremo alla Sicilia, specialmente ai suoi ultimi 200 anni.
Fino al 1806 vigeva in Sicilia il demanio, istituto feudale sapientemente riformato dal diritto napoletano.

Suo scopo era di impedire ai terratenenti di usurpare la sovranità reale sul suolo per mezzo di una vera pletora di usi civici che ne regolavano l’uso e ne impedivano, o severamente limitavano, l’abuso. I Don Cola del tempo non scialavano, ma non morivano di fame: coltivavano in uso privato appezzamenti demaniali che bastavano loro per mangiare, vestirsi, avere un tetto, e godere di un reddito sufficiente per soddisfare i loro obblighi. Non c’era né disoccupazione né emigrazione.

Il demanio non era terra franca, come vedremo, ma un istituto paternalista, che schierava il sovrano dalla parte del popolo contro i potenziali arraffaterra desiderosi di “mietere dove non avevano seminato”. Non si trattava quindi di un equilibrio, ma di unosquilibrio contenuto, come quello, diciamo, di un tappo di bottiglia di spumante maldestramente usato per bloccare una diarrea.

Il primo colpo al sistema lo infersero le leggi murattiane del 1806-08. Abolito il diritto feudale, i terratenenti assaporarono cosa volesse dire vivere di rendita per più di 40 anni. Fu come fare assaggiare al leone il sangue umano.

I moti rivoluzionari, come dovunque, non furono opera “del popolo” ma di coloro che avevano fiutato la possibilità di vivere del lavoro altrui. Ai poveri si rubarono perfino le suppellettili ammucchiate sulle barricate del 1848.

Ferdinando II l’ebbe vinta, ma per poco. Non solo abolì la costituzione, ma tra il 1850 e il 1854 “redintegrò” al demanio più di 100 000 moggie di terreno usurpato dagli arraffaterra murattiani in tutto il Napoletano.

Non c’è da meravigliarsi quindi che costoro gridassero a “la tirannide borbonica”, inneggiando a Garibaldi e ai Piemontesi: erano liberatori sì, ma non dei poveri, come ci vogliono far credere i libri di testo.

Nel 1860 venne la disoccupazione, e con essa la fame. Che fare con l’improvviso straripare di proletari, proletarie e proletarietti di ambo i sessi?

Non c’era che l’imbarazzo della scelta: dallo scherzoso “modest proposal” di Jonathan Swift (1667-1745) cioè servire i loro neonati come manicaretto prelibato alle tavole dei ricchi; a quello di Malthus (1766-1834, che ancora viene preso sul serio) di convincerli ad avere meno figli; al Terrore, il cui vero scopo era una drastica riduzione della popolazione francese[2]; all’emigrazione tipo irlandese, volontaria o forzata in Australia (anche per il furto di un fazzoletto), alla coscrizione di centinaia di migliaia di disoccupati come carne da cannone, o alla facile incarcerazione (gli U.S.A. ne hanno 3 milioni, circa l’1% della popolazione). I Piemontesi optarono per i plotoni d’esecuzione, con i quali ottennero il doppio scopo di eliminare buona parte del sovrappiù di proletariato e convincere l’altra ad andarsene.

E così la Sicilia “gode” (se è la parola giusta) di codesto regime di proprietà fondiaria ancora oggi. Il principio liberale “ognuno per conto suo e il diavolo si porti chi rimane indietro” ha funzionato a dovere. Per finire diamo la parola a uno che di storia non ne sapeva, ma che aveva assaggiato il coltello dalla parte della lama.

L’intervista ebbe luogo a Calcarelli, Palermo, verso il 1960, a circa 100 anni dalla “liberazione”.

E allora i figli emigrano. Vanno in Germania, a Torino. Io non è che mi nascondo: quando mio figlio lavorava con me alla fine della settimana, la domenica, se gli servivano 100 lire per ire a tagghiarsi la barba, iddu questa disponibilità non l’havìa. E se ne scappò perchè riconoscìu che lavorando qua non ci restava neanche 100 lire. L’altro fratello, pure lui fu costretto a scappare, come scapparono tutti gli altri. Allora non c’era progresso, non c’era terreno, e dovevamo fare gli schiavi per forza, e oggi siamo più schiavi ancora per mancanza di soddisfazione. E io penso che se non si prendono provvedimenti finisce tutto nella Sicilia, finisce tutto. Certo, di fame non è che si muore, ma sta siccando tutto, i giardini sono tutti abbandonati, gli orti non li fanno più nuddu. La gente si contenta di arrivare alla pensione e di non travagghiari più. La legge è diventata chista: “Il poco m’abbasta e l’assai m’assopérchia”. Male me la passavo prima, almeno ora me la passo pure male, però non faccio niente.[3]

Ecco perchè da almeno 50 anni la popolazione della Sicilia è ferma a poco meno di 5 milioni. I presenti regimi fondiario e monetario non permettono di più.

È vero che non tutto il male vien per nuocere, ma è anche vero che i mali non vengono mai soli. Il quadro viene completato da

La Questione Monetaria

Dice Erodoto che fu Creso di Lidia (m. 546 a.C.) ad inventare la moneta, imprimendo il sigillo reale su un pezzo d’oro per garantirne il peso. Vero o no, dobbiamo alla decisione apparentemente innocua di aver unito un certo tipo di informazione a un metallo prezioso conseguenze incalcolabili, che in 26 secoli di storia oscillano dal grottesco al tragico quando non all’assurdo, come i due millenni e mezzo che ci sono voluti per accorgersene.

Quell’unione altro non è che una contraddizione pratica: spendere, o risparmiare, sono un aut aut radicale senza mezzi termini.

Ci porterebbe troppo lontano spiegare come questa contraddizione pratica sia la causa base dell’usura, e pertanto di sopraffazione, povertà, crisi economiche e politiche, economia di guerra, rivoluzioni, lotte di classe, povertà nel mezzo dell’abbondanza, e della questione sociale. Come per la questione fondiaria, alla quale quella monetaria si aggiunge come l’altra ala di un uccello infernale di malaugurio, ci limiteremo alla Sicilia.

Un’unità di valore che è valore al medesimo tempo fa sì che la domanda, spalleggiata da denaro, conceda al suo possessore un vantaggio indebito sull’offerta, spalleggiata… dai danni del tempo, passaggi di moda, tarli, umidità, funghi, ratti, ladri e via dicendo.

Quel vantaggio si esprime come tributo che l’offerta è costretta a pagare alla domanda. Quella o abbassa i prezzi fino al livello imposto dalla domanda, o paga un interesse convenuto per l’uso del denaro a prestito. L’usura, quindi, si identifica con questo tributo, e non con teorie di “fecondità”, “produttività”, “utile”, “lucro cessante”, “denaro che lavora”, “interesse eccessivo” o “sfruttamento”. L’usura è forma di potere. Da questa imposizione primaria essa passa a tutto ciò che scambiano domanda e offerta, da capitale a oggetti di consumo.

Quando la domanda non è soddisfatta dall’ammontare del tributo, come in periodi di prosperità, si ritira dal mercato, causando ristagno economico, deflazione, disoccupazione e depressione, come negli anni 1932-39. Ecco il perché dei cicli economici, non le macchie solari come proponeva l’insigne(?) economista Prof. Jevons (1835-82) o altre cause più o meno peregrine della sapienza convenzionale.

La mentalità moderna chiama “denaro” tanto il contante quanto il credito, confondendoli permanentemente. È vero che a parità di condizioni si comprano le stesse cose tanto con un biglietto da €100 ($, £, ¥, rubli o quel che sia) quanto con un assegno per lo stesso importo. Pochi però riflettono che l’assegno altro non è che strumento di credito: non fa che trasferire informazioni da un conto bancario ad un altro, una sola volta. Il biglietto da €100, d’altro canto, trasferisce beni e servizi per €100 ogni volta che cambia di mano. Nel caso ipotetico ma non impossibile che quel biglietto venga scambiato tre volte al giorno per un anno, lo stesso pezzo di carta farebbe muovere beni e servizi per più di €100 000. Questo è il significato di liquidità, posseduto dal contante, ma non dal credito.[4]

Si aggiunga a codesta confusione che lo Stato moderno, creazione del potere finanziario e ad esso asservito, controlla solo gli spiccioli di metallo. Il contante cartaceo lo controlla la Banca Centrale (oggi a Bruxelles), e il credito le banche commerciali. L’inganno non è tanto quello che su una scarna base di contante esse emettano credito per 10-12 volte di più (la cosiddetta riserva frazionaria), ma che chiamino “prestito” quello che è una vera e propria emissione di denaro sotto forma di creazione di credito (non contante). Chi lo emette è il firmatario dell’assegno al momento di farne passare l’informazione al conto del ricevente. Confondendolo con un prestito, il firmatario si impegna a restituire un capitale fittizio e a pagarne l’interesse convenuto, per il quale però la banca non gli permette di emettere niente. L’interesse deve estrarlo dalla ricchezza da lui prodotta, o da quella di un altro, o indebitandosi ancor più. Risultato: se dieci prestatari prendono in prestito (emettono capitale) 100 ciascuno per un totale di 1 000, devono restituire 1 100 alla maturazione dell’interesse: uno di loro prima o poi dovrà per forza andare in bancarotta.

Contro una tal frode, istituzionalizzata da 400 anni, cosa può fare la “Sichilia miskinella”? Con lo Statuto nudo e crudo, lo abbiamo visto. Vediamo ora cosa potrebbe fare ottenendo per di più l’autonomia monetaria (S + M).

Autonomia Monetaria con moneta convenzionale

Nel golfo di S. Malo, 49o 20’ N 2o 20’ W, sorgono dal mare le Isole Normanne: Jersey, Guernsey, Alderney, Sark e isolotti minori per un totale di 195km2 (= Pantelleria + Eolie). Chi le visiti, anche virtualmente in Internet, non può fare a meno di sbalordirsi con le semplici statistiche: 150 000 e più abitanti (contro i 17 000 scarsi delle equivalenti isole siciliane); una densità quindi attorno agli 800/km2, cioè quattro volte quella del Regno Unito; opere pubbliche di prim’ordine, dalle case del governo, alle strade, ai tre aeroporti di Jersey, Guernsey and Alderney, agli impianti di desalinizzazione per l’acqua potabile. Le industrie principali sono la finanza (che la finanza usurpi il nome di industria è osceno, ma questo è un altro discorso), il turismo e l’agricoltura, che vanta ben due razze bovine di fama mondiale campioni di produzione di percentuale di grasso nel latte.

Lo sbalordimento continua con lo studiarne la storia e l’ordinamento politico. Le isole non fanno parte né del Regno Unito né dell’Unione Europea. Godono però di una “relazione speciale” con il primo da 900 anni: il Regno Unito bada alla difesa, ma il governo degli Stati (sic) delle Isole è autonomo. Le isole dipendono direttamente dalla Corona, però non quella d’Inghilterra, si badi bene; la Regina è “il nostro Duca (non duchessa) di Normandia” dato che gli abitanti sostengono (e non a torto) di aver loro conquistato l’Inghilterra con Guglielmo d’Altavilla nel 1066. Ci sono quindi cugini lontani: parlano lo stesso dialetto franco-normanno dal quale discese il siciliano.

Lo sbalordimento sorpassa tutti i limiti nel considerare che le isole non sono neanche solidarie l’una l’altra: Jersey ha un governo e una bandiera; Guernsey ha un altro governo (e un’altra bandiera); da essa dipendono le isole minori, ognuna con regime politico proprio. I titoli sono ancora quelli medioevali di Conestabile, Siniscalco, ecc. Le circoscrizioni sono le Parrocchie (civili, non ecclesiastiche), ognuna con la sua forza di polizia. Gli abitanti si sbeffeggiano a vicenda (v. National Geographic Maggio 1971).

In circostanze “normali” una tale disunione porterebbe alla rovina. Cosa fa funzionare le Isole?

Una sola cosa: il diritto, conquistato a dura prova dalle banche, di batter moneta.

Nel 1815, finite le guerre napoleoniche, Guernsey era in condizioni disastrose.

Le strade, fiumi di fango larghe appena 3 metri; il commercio, inesistente; i poveri, dappertutto. Sul debito pubblico di 19 137 sterline gravava un interesse annuale di 2390.

Aumentare le tasse era fuori discussione; chiedere un prestito alle banche sarebbe stato rovinoso. Il comitato che studiò la questione vide il rimedio: emettere banconote di Stato (libere da debito) e titoli, per opere pubbliche e per rilanciare l’economia.

Per dieci anni le cose andarono bene; nel 1825 le banche contrattaccarono per sabotare l’esperimento. Prima inondarono le isole di banconote loro; poi ottennero dalla Corona il ritiro delle banconote degli Stati, e fecero il bello e il cattivo tempo finanziario fino al 1914, come lo fanno tutt’ora dovunque gli artigli di Mammona afferrano le loro prede.

La Grande Guerra le constrinse a rilassare la presa. Approfittando delle restrizioni imposte alle banche dagli eventi bellici, le Isole riconquistarono il diritto di batter moneta e non lo hanno abdicato fino ai nostri giorni.[5]

In questa località, quindi, oltre all’istituto del patto vi è quello dell’autonomia monetaria. Le tasse sono irrisorie (8% sul reddito),[6] tanto per l’assenza di debito pubblico quanto per il milione di turisti che annualmente visitano le isole.

La storia è ben altra nel Regno Unito, che sta ancora pagando gli interessi contratti per vincere la battaglia di Waterloo; il mercato di Glasgow, costato 60 000 sterline nel 1817, non fu finito di ripagare che nel 1956, quando era già tempo di demolirlo.

La Moneta Franca

Il genio che mise a nudo la contraddizione pratica della forma di moneta convenzionale e ne propose il rimedio si chiamò Silvio Gesell (1862-1930), mercante tedesco trasferitosi in Argentina negli anni 1890.

Costui propose un doppio divorzio: primo, quello della moneta dai metalli preziosi; secondo, quello dell’unità monetaria dall’oggetto che la rappresenta.

Il primo divorzio ha avuto luogo in due tappe: il 25 settembre 1931 il Premier britannico MacDonald, con le lagrime agli occhi, annunziava che il Regno Unito avrebbe rinunciato al sistema aureo per sempre. Era stata la Grande Guerra a forzare il passo. Tutto l’oro del mondo non sarebbe bastato a finanziarne che poche settimane, altro che i quattro anni di carneficina che durò.
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