CALISTO TANZI, LE BANCHE E LA MAFIA

Bruxelles, 1 marzo 2004

In ordine alla vicenda del crac Parmalat, le cose da dire sarebbero tantissime e tutte a svantaggio delle irresponsabili caste politiche ed imprenditoriali della Sicilia. Ripeto: ci sarebbe da scrivere, col vetriolo, contro chi gestisce politica e affari siciliani, ma ho preferito aspettare che si placasse la mia sete giustizialista per evitare di dire quello che penso per come lo penso.


Adesso che qualche settimana è trascorsa tra stanchi Tg infarciti di interrogatori fiume e liti fra procure, cominciamo a dire quel che c’è da dire.

Ribadisco: quasi sottovoce e senza esasperare i fatti nell’enfasi dettata dalla rabbia.

Tre aziende siciliane del gruppo di Calisto Tanzi sono nella nostra Isola perché nate nella nostra Isola. Poi sono state cedute all’avventuriero emiliano senza troppo curarsi di cercare di trattenerle così come s’è fatto per altre.


Perché?


Forse che entrando nell’orbita dell’avventuriero emiliano abbiamo avuto miglior sorte?


La cronaca ci dice di no. Ritorna a farsi vivo, a questo punto, il problema di sempre: fare impresa in Sicilia è difficile. Anzi: è vietato. Perché se hai i soldi da investire vuol dire che sei mafioso e se non li hai nessuna banca ti fa credito dovendo correre in aiuto dei ricchi clienti o degli avventurieri che sanno truccare le carte. Tutto qui: semplice come l’avvicendarsi del giorno con la notte.

Il sistema creditizio sappiamo bene che in Sicilia ha gestito e gestisce i soldi peggio che nei paesi in via di sviluppo: chi ne ha continua ad incrementarli e chi non ne ha può stare ben certo di non averne mai.

Il cappio che hanno realizzato le banche attorno al collo di molte nostre imprese è la più evidente perversione del sistema: la Regione è stata proprietaria di banche, ma i soldi erano destinati agli “amici” (a volte torbidi amici) con il conseguente collasso di aziende ed economia. Meglio allora svendere all’invasore che porta denaro nordista.

Fa rabbia tutto ciò, e ne fa tanta di più se si pensa che queste aziende c’erano!


Voglio dire: non si è trattato di una Termini Imerese nel senso che non c’è stata una FIAT che, facendosi fare una legislazione di favore, si è venuta a insediare nell’Isola portando un po’ di lavoro e lasciando sul campo le macerie del suo fallimento gestionale.


No, qui è diverso: le aziende c’erano già e bastava solamente rimetterle in piedi e rilanciarle adeguatamente prima che venissero fagocitate da un sedicente imprenditore senza scrupoli.

Parliamo allora della mafia: quella parolina magica che, solo ad evocarla, mette i brividi nella lingua di tanti sciacalli pronti a bollare e bloccare ogni iniziativa isolana.


Che c’entra la mafia?


Vi immaginate se quello che ha fatto il signor Tanzi l’avesse fatto un qualsiasi imprenditore siciliano?

Non credete che, per primo proprio dalla Sicilia stessa, qualche cretino si fosse astenuto dal gridare alla mafia? Per il semplice gusto di abbaiare alla luna, intendiamoci. Difatti nessuno di questi cretini si è ad oggi indignato fino al punto da bollare come mafioso questo spericolato e perverso intreccio teso tra banche, politici isolani e imprenditori predoni bancarottieri.


Come sempre, quello ci resta nelle mani è un cumulo di macerie. Ma in compenso ci costruiranno sulla testa un ponte che, “finalmente”, potrà fare giungere in Sicilia, più velocemente di prima, certi pseudo-imprenditori che vorranno acquistare il nostro lavoro, la nostra dignità e la nostra storia per due soldi.

Venghino, signori, venghino: Sicilia offresi al primo che viene! Prezzi modici. Tranquilli, Siciliani: su di voi veglia, fuori dai confini nazionali, L’Altra Sicilia: quella, per intenderci, che non si rassegna ad essere infangata da una simile marmaglia.

Giovanni Cappello


L’Altra Sicilia – Ragusa