GLI SPECCHI SCRITTI

Bruxelles, 8 Giugno 1999

Sale con lentezza indicibile dal fondo dell’anima il
migliore tempo della nostra vita e nella memoria delle
perdute cose diventa pena e nostalgia, un male oscuro
che ci affligge, uomini del Mediterraneo, soprattutto
siciliani.


Nella storia di molti, spesso la Sicilia diventa
isolamento, separazione, ed allora partiamo, evadiamo.

Emigranti costretti in una citta straniera, viviamo il
nostro esilio come perdita di luoghi e di memoria,
come uno sradicamento che confonde la mente e ci
costringe ad un doppio rapporto che è insieme di
rispetto e di contrapposizione. Rispetto per abitudini
che non condividiamo ma con le quali dobbiamo pur
convivere, contrapposizione perché, anche senza
volerlo, tendiamo a conservare la nostra identità
specifica.

Privati di quella forza vitale che proviene dalla
nostra identità siciliana originale e sulla quale
misuriamo le vittorie e gli scacchi della vita, siamo
costretti a chiederci: cos’è stata e cos’è oggi la
Sicilia?

I movimenti umani avvenuti nel nostro paese negli
ultimi trent’anni, con i cambiamenti antropologici che
hanno comportato, la rivoluzione tecnologica, la
società post-industriale hanno implicato una serie di
conseguenze che sono retaggio al progresso, certo, ma
anche l’alto prezzo che abbiamo pagato alla fine delle
culture locali, quelle che avevano una loro precisa
individualità, quelle che ci facevano “storia”. La
Sicilia, intesa come isola-continente, la stessa idea
di Sicilia quindi è tramontata definitivamente e tutto
si è livellato su parametri mondializzati.

La storia contemporanea della Sicilia è la storia
della dipendenza da Roma, da Milano e Torino, la
storia dei treni del sole, treni senza sole che
portavano alla nebbia i loro carichi di emigranti e di
speranze. Così mentre le nostre campagne finivano di
svuotarsi, le regioni del nord, d’Europa e del mondo
si affollavano di emigrati siciliani.

E sì che la scoperta del petrolio in Sicilia negli
anni ’60 aveva acceso la speranza di una rinascita
della vita economica e la stessa concessione dello
Statuto regionale aveva fatto sperare nel risorgimento
della vita politica e della cultura siciliana. Ma
erano state però un’illusione, l’inganno della Fata
Morgana, un’utopia che si era frantumata contro le
infiltrazioni mafiose, la mancanza di programmi
politici, il malgoverno perdurante, gli sprechi, il
consociativismo, la corruzione.

La storia dell’autonomia siciliana culminata
nell’ottenimento di quello Statuto regionale che ha
compiuto, lo scorso 27 aprile, 52 anni di esistenza,
ha dimostrato oggi che si è dilapidato un patrimonio
di poteri e di risorse straordinarie che le classi
politiche, succedutesi alla guida della Sicilia, si
sono rivelate incapaci di saper gestire.

Ancora siamo in troppi a temere che la nostra Isola
continui ad accumulare ritardi e in definitiva a
perdere ogni giorno di più le possibilità di riscatto,
ed allora ci rifugiamo nella sfera dell’immaginazione,
del sogno.

Ma accanto ai luoghi della memoria – quei paesi e
quelle città tranquille e ordinate di una volta –
vediamo sorgere oggi orribili costruzioni divorate dal
cemento, metropoli e paesi che si credono moderni,
immersi nel traffico più caotico, che hanno nel
disordine più disperato il loro comune denominatore.

Riusciamo a cancellare le traccedel passato
sostituendole con palazzi slabbrati, campi-scuola,
cittadelle dello sport, regolarmente abbandonati dalla
necessaria manutenzione, una volta “finita la festa e
gabbato – quindi – lo santo”.

E sono spariti anche i vecchi incubi, gli eventi
spaventosi della antica cultura originaria che aveva
creato raffinate ambiguità tra religione e paganesimo,
tra riscatto sociologico e sogno visionario: sono
sparite le “lucciole” di memoria pasoliniana, è
sparito il licantropo di Consolo, l’urlo bestiale che
rompeva il silenzio delle notti di luna piena e creava
l’incubo, lo spavento notturno carico di male e
malefizio, contro il quale si opponevano crudeli gesti
esorcistici.

Era una società contadina sana, una società di valori,
che il mondo moderno, che ha perduto il privilegio di
credere nei suoi “portenti” ha cambiato livellandola,
purtroppo verso il basso. Attraversare la Sicilia
significa oggi visitare città e paesi un tempo vitali
per cultura e umanità, pieni di speranza e volontà,
luoghi che oggi però l’autostrada ha avvicinato ma
allontanato per sempre dall’uomo e dalla sua
dimensione umana.

Messina, Enna, Caltanissetta, Palazzolo, Acreide,
Ragusa, Caltagirone, Riesi o Racalmuto infondono oggi
desolazione e pena; città svuotate di uomini e
significato. Come Priolo e Melilli che le raffinerie
di petrolio hanno reso territorio tra i più inquinati
d’Italia, come la “mite” Tindari, che ha perso ormai i
suoi pini, il suo vento e le cui “lievi brigate” sono
state soppiantate da folle chiassose e scatenate, pur
nella sacralità che dovrebbe invece destare la vista
di un teatro greco tra i più raffinati del
Mediterraneo. Purtroppo è paesaggio imperante e
modello vincente, il panorama della nuova umanità
siciliana, uguale ormai, per perdita di identità e di
cultura, alle altre realtà regionali italiane nate
dallo squallore consumistico degli anni del boom
economico, dalla preoccupante assenza di cultura e
dell’essere umano, con il suo carico di emozioni e
sensazioni.

Isola in cui chi ha cercato di fare la storia, di
agire sulla realtà, di operare sulle cose, di
denunziare realtà stagnanti e regressive è stato
costretto a partire e chi invece è rimasto si è
isolato proprio perché non ha trovato più ascoltatori.

Metafora ossessiva di una terra vilipesa e rimasta
senza storia e senza cultura, ridotta purtroppo a mito
ribadito dalla sola memoria personale, processo che
resta individuale, narcisistico e improduttivo.
Sicilia, isola della mente, queste vogliono essere
ormai le mie immagini: lo specchio scritto di quello
che ho visto ma anche delle cose in cui mi sono
guardato.

Eugenio Preta