FIGLI DEL CAOS

Bruxelles, 02 Marzo 2001

Ci sfiducia Candelora e ci lascia in pieno inverno,
con il naso schiacciato a guardare la pioggia che
lenta scende sui vetri come su una strada di
cristallo, mentre sul piatto del giradischi un
sassofono lancinante rimanda note di blues e di
malinconia.


Viaggia la mente, naviga sugli oceani della memoria
l’immaginazione.

Si alza lo sguardo e plana su una piazza della mia
isola. Soffia il vento del Tindari tra gli abeti e i
pini che circondano l’anfitetatro, grigio il mare
accavalla onde frastagliate e dondola nel quieto mare
dei laghetti di Olivieri peschereccio abbandonato
dall’equipaggio dopo l’andare della notte.

Figlio del caos, sento sulla pelle il peso dei
secoli, le razze e le stirpi che hanno mescolato il
loro sangue al mio, la sensibilità che vi hanno
inculcato elimi e saraceni antichi.

Lieve sarebbe la pioggia tra le vie della città dove
sono nato e segreti sogni mi hanno illuso; non
riuscirebbe a bagnarmi neanche le mani, ma qui, nel
nord lontano, penetra nelle ossa, inzuppa gli abiti e
bagna la memoria.

Ma vivo il mio tempo e porto la mia testimonianza
nel quotidiano di un’esilio dorato, voluto certo, ma
pur sempre lontananza.

Con la nostra partenza abbiamo spezzato il filo
della rassegnazione che teneva uniti padri e figli; in
un mondo in pieno divenire, abbiamo cercato il nuovo
mondo e con la nostra partenza abbiamo dato il segno
dei tempi, anticipato la fine del millennio segnato il
cambiamento come la nostra grande tradizione
contadina era stata spazzata dai miti della zolfara e
della tonnara, la nostra partenza ha creato il
miraggio ma ci ha confusi, soli nel Nord lontano.

Noi che siamo partiti non cerchiamo però
gratificazione, non portiamo tristezza, abbiamo
lasciato a chi restava il compito di conservare i
luoghi della nostra memoria. A volte torniamo però ma
ci sentiamo spaesati.

Allora ricorriamo
all’immaginaione e così fermiamo il tempo sul cortile,
sulla piazza, sulla via che forse ormai già non
esistono più. Fermiamo la nostra mente sulle ombre che
sempre più numerose si affollano nei dintorni della
memoria.

Sono presenze silenziose che un gesto, una musica,
un sapore, un nome sembra portare di nuovo in vita. Una
folla muta che esiste soltanto nella memoria e alla
quale vorremmo raccontare storie del domani, dividere
con loro preoccupazioni che più non li interessano.
Oggi ci sentiamo traditi nelle case che non esistono
più, nelle strade cancellate, nella gente che è
scomparsa, nella memoria dell’isola che nessuno vuole
coltivare. Una volta c’erano i poeti; a loro era
affidato il compito della memoria e dell’anima, oggi
sono stati stritolati dalle tecnologie del linguaggio
e dalla confusione della morale.

Una volta c’era il Siciliano, con un carattere
simile da capo Lilibeo a Capo Passero, da Marzameni al
pilone di punta faro. Oggi tutto è confusione,
soltanto da lontano vive questa terra e nelle vicende
della mente rivive nei valori che forse si sono
persi.

E noi, figli del cavuso, prima o poi
ritorneremo a casa, per passeggiare nelle strade
deserte, come quando, nel cuore della notte la città
sembrava appartenerci e ci sentivamo protetti da quei
luoghi consueti che ci chiudevano in un abbraccio di
protezione. Prima o poi ritroneremo alla ricerca delle
nostre radici di sole, e chiederemo conto a chi è
restato.

Eugenio Preta