Le basi legislative del futuro sviluppo economico in Sicilia

La crisi economica in Sicilia (e nel sud) ha radici storiche oramai accertate, risalenti all’evento di cui, proprio quest’anno, stiamo festeggiando (?) il 150° anniversario.

Nel 1946 accadde un fatto che avrebbe potuto cambiare le sorti dell’economia – e non solo – dell’Isola:fu approvato lo Statuto di Autonomia della Regione siciliana, poi recepito integralmente nel 1948 – con l’avvento della Repubblica – e convertito in apposita legge costituzionale. Gli articoli 36, 37 e 38 avrebbero potuto risollevare completamente l’economia siciliana. In particolare, l’articolo 36, che recita letteralmente: “Al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima. Sono però riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate dei tabacchi e del lotto”, avrebbe permesso alla Regione siciliana di istituire una propria fiscalità, sostitutiva rispetto a quella statale (con le pochissime eccezioni menzionate nell’articolo).

E’ di facile comprensione l’importanza di poter stabilire autonomamente la propria fiscalità: si avrebbe la possibilità di creare una fiscalità di vantaggio che attrarrebbe gli investimenti con chiare positive ripercussioni in merito agli insediamenti imprenditoriali ed ai livelli occupazionali. Una fiscalità di vantaggio “siciliana” non infrangerebbe le norme europee perché non sarebbe classificabile come aiuto di stato in quanto decisa dal governo locale, dotato di autonomia istituzionale, procedurale ed economica sufficiente affinché una norma da questi adottata nei limiti delle competenze conferitegli sia considerata di applicazione generale nell’ambito di tale ente infrastatale e non abbia carattere selettivo (come da sentenze del 6 settembre 2006 e dell’11 settembre 2008 della Corte di Giustizia Europea in merito alla fiscalità attuata dai Paesi Baschi, regione autonoma della Spagna).

Ma, nonostante i decreti attuativi dell’articolo 36 (emessi il 26 luglio 1965), nulla di tutto questo si è mai verificato perché non interessava allo Stato italiano e perché i politici siciliani hanno “venduto” lo Statuto e, in fondo, la Sicilia stessa per i propri benefici e le proprie carriere personali, calando la testa alle segreterie dei propri partiti (manco a dirlo, tutti nazionali).

Quando la Regione siciliana ha voluto reclamare l’attuazione dell’articolo 36, ci ha pensato la Corte Costituzionale – secondo lo Statuto non competente in materia (dovrebbe esserlo, piuttosto, l’Alta Corte) – ad impedirlo con sentenze a dir poco provocatorie in cui si dà una interpretazione di quanto scritto nell’articolo 36 dello Statuto che non ha alcuna base logica: secondo essa, la Regione sì, può istituire tributi propri, ma non sostitutivi di quelli statali, bensì aggiuntivi!!!

Tutto ciò è stato possibile anche grazie al fatto che la quasi totalità dei cittadini siciliani è stata (tenuta) all’oscuro di tutto ciò. Questa situazione sta oggi cambiando grazie anche al lavoro di comunicazione di alcuni settori di “avanguardia” della società civile e dello stesso attuale Governo regionale. La presa di coscienza, ogni giorno più diffusa, porterà a una forte pretesa di rispettodegli accordi originari contenuti nello Statuto di Autonomia; i cittadini siciliani sapranno sempre megliogiudicare l’operato concreto dei politici siciliani in merito e ciò potrebbe avere delleripercussioni anche a livello di consenso elettorale, al momento del voto; lo Stato italianosarà tenuto “sotto osservazione” dai cittadini siciliani e, quasi certamente, finirà per accordare quanto spetta loro di diritto. Ma se, nella remota ipotesi, dovesse continuare a rivelarsi insensibile agli accordi statutari, una deriva indipendentistica sarebbe a quel punto inevitabile ed anche auspicabile.

Fonso Genchi