La protesta, la sinistra e la ‘buona borghesia’

Alla fine degli anni ‘80 la ‘buona borghesia’ di Palermo, infastidita dalle troppe sirene per le strade, sbottò: “Basta con queste auto che scorrazzano senza controllo per la città!”.
Le auto che circolavano a sirene spiegate e a zig zag per le strade cittadine erano quelle dei magistrati inquirenti del Tribunale, allora guidati dal giudice Antonino Caponnetto. Erano, insomma, le automobili dei magistrati che cercavano solo di non farsi ammazzare dai mafiosi. Eh già, perché se oggi, bene o male, è lo Stato che dà la caccia agli uomini di ‘cosa nostra’, non dobbiamo dimenticare che nella nostra ‘felicissima’ Sicilia c’è stato un tempo – neanche troppo lontano, volendo – in cui avveniva l’esatto contrario. Il tutto nella pressoché totale indifferenza – anzi spesso con il fastidio per le sirene e per i ‘botti’ – di una certa ‘buona borghesia’.

Insofferenza e fastidio, fino alla noia, potrebbero essere gli argomenti di un romanzo di Alberto Moravia. Ma dalle nostre parti, purtroppo, l’indifferenza è sociale, più esteriore che interiore. Prendiamo le proteste di piazza di questi giorni. E guardamole alla luce dell’articolo, a firma del bravissimo Gabriele Bonafede, che il nostro giornale pubblica oggi. Dove si dimostra, numeri alla mano, che la crisi che oggi sta facendo affondare l’Europa è stata voluta e ‘pilotata’ dalla Germania e dalla Francia.

Una crisi nera. Con interi Paesi Europei al dissesto finanziario. Con la disoccupazione che dilaga. In questa crisi la Sicilia c’è dentro fino al collo. Anzi, nella nostra Isola, come abbiamo cercato di raccontare ieri, la crisi è ancora più grave. Perché la nostra agricoltura – che ha un numero di addetti molto più alto, in proporzione, rispetto alle agricolture di tutte le altre regioni italiane – deve fronteggiare l’arrivo di prodotti, peraltro senza controlli seri, da certi Paesi del mondo dove il costo di produzione è di gran lunga inferiore a quello delle aziende agricole siciliane.

Non va meglio con la pesca, altro settore in crisi. Con le nostre Marinerie colpite da un caro carburante che rende quasi impossibile andare per mare. Per non parlare del fatto che, nel Mediterraneo, di pesci se ne prendono sempre di meno, causa uno sfruttamento irrazionale – e spesso fuori controllo – delle risorse ittiche. Superfluo aggiungere che, anche in Italia, importiamo pesce. In Sicilia, addirittura, importiamo prodotti ittici provenienti da chissà dove che vengono spacciati ai consumatori come pescato siciliano.

Tra le tante emergenze di una Sicilia allo sbando ne segnaliamo due, tra loro legate e a nostro avviso da non sottovalutare: ortaggi e frutta (e, in minima parte, per ora, anche certi tipi di pesci) che arrivano non si capisce più da dove (prodotti agricoli spesso trattati con pesticidi che l’Italia ha bandito dalla farmacopea agricola oltre trent’anni fa perché dannosi per la nostra salute) e quasi tutta la nostra l’agricoltura e le nostre Marinerie in crisi.

La scorsa settimana intere famiglie di agricoltori e pescatori sono scese in piazza non per divertirsi, ma perché non ce la fanno più. Perché sono ridotte allo stremo. Perché non hanno più di che mangiare.

Che cosa ha colto la ‘buona borghesia’ siciliana di questa protesta di centinaia e centinaia di migliaia di persone ridotte alla fame? Il presidente delle industrie siciliane (che in parte non ci sono più) ci ha avvertito, bontà sua, che dietro la protesta potrebbero celarsi “infiltrazioni mafiose”. Il procuratore nazionale antimafia, che è siciliano, ha detto che la cosa potrebbe essere “possibile”. Il primo – Ivan Lo Bello – se non ricordiamo male, è ricco di famiglia. Il secondo – Piero Grasso – dovrebbe avere ogni mese in tasca uno stipendio niente male. Tutt’e due hanno la pancia piena. E quando si ha la pancia piena, si sa, è facile fare filosofia spicciola sulla pelle di chi ha fame.

Accanto alle dichiarazioni dotte di questi due uomini pubblici c’è il fastidio – certamente giustificato – della gente che è rimasta senza benzina. E ci sono le prese di posizione – che non sono mancate – dei soliti commentatori che, piuttosto che interrogarsi sul perché tante gente scende in strada, hanno invece acidamente condannato la protesta perché si sono creati “troppi disagi ai cittadini”.

A tanti commentatori infastiditi si potrebbe obiettare che se tutte le piccole aziende agricole siciliane chiuderanno i battenti – e il rischio c’è – la Sicilia, regione autonoma, registrerebbe un calo secco dell’Irpef, con l’impossibilità di pagare lo stipendio a una parte numericamente non secondaria delle persone oggi infastidite dalla protesta. Ma questo particolare, così ci sembra, passa inosservato.

La verità è che la Sicilia di oggi sembra incapace di cogliere il significato di una protesta sociale. Anzi, di pensare all’esistenza stessa di una questione sociale. In questi giorni, gli esponenti della cosiddetta sinistra hanno fatto a gara nell’indicare i nomi di vari schieramenti di destra che avrebbero patrocinato o strumentalizzato la protesta. E, magari, in alcuni casi questo è vero (i tentativi di strumentalizzare la protesta da parte dei signori di Forza nuova ci sono per davvero).

I signori della sinistra, però, non si pongono una domanda semplice semplice: ma non dovremmo essere noi, in piazza, a patrocinare questa manifestazione di popolo? Se qualcuno si chiede perché, a Palermo, il Pd (che dovrebbe raccogliere la tradizione elettorale del grande Pci e della sinistra Dc) è ridotto a poco più del 10 per cento, la risposta la può ‘leggere’ nei fatti di questi giorni: perché questo partito i voti li prende non dalla maggioranza di lavoratori disperati, ma dalla minoranza ‘infastidita’ che vive per lo più di stipendi pubblici. La sinistra del the con i pasticcini – e a Palermo siamo lì – non può capire questa protesta.

Mentre scrivo questo articolo mia moglie, che nella vita fa il medico, guardando la Tv si è ‘sciroppata’ un servizio su un comunicato congiunto di Confindustria Sicilia, Confesercenti, Cna, Lega delle Cooperative e via continuando. I big di queste organizzazioni imprenditoriali siciliane sembrano piuttosto infastiditi dalla protesta popolare. “Ma non dovrebbero essere in piazza a protestare con loro contro il governo nazionale e contro il governo regionale?”, mi chiede. Lo confesso: non so cosa rispondere.

Mi limito soltanto ad aggiungere al pezzo che sto scrivendo le seguenti considerazioni: le organizzazioni imprenditoriali siciliane non riescono più a rappresentare e, forse, non riescono più a capire quello che succede in quello che resta dell’economia siciliana. Abituati a stare seduti dietro le scrivanie, hanno forse perso il contatto con la realtà?

Non va meglio con le organizzazioni agricole. Distaccata, quasi ‘aristocratica’, la posizione della Cia (che dalla Confcoltivatori non ha peso proprio nulla!). Peggio che andar di notte la Coldirettti, che già fa i conti e parla di danni, preparandosi a chiedere al governo della Regione le solite “declaratorie”. Dov’è finita la Coldiretti siciliana della fine degli anni ‘80 che, per tutelare i propri iscritti, scendeva in piazza contro i governi democristiani?

In Tv dicono che la manifestazione ha prodotto 500 milioni di danni ai siciliani. Ma perché non ci dicono quanti danni ha prodotto alla stessa Sicilia il governo Berlusconi negli ultimi tre anni? E perché non ci spiegano quanti danni sta provocando il governo Monti con le sue banche? Per non parlare, ovviamente, dei guasti provocati dal governo regionale di Raffaele Lombardo, per esempio, con le società collegate alla stessa Regione.

Insomma, migliaia e migliaia di agricoltori ridotti alla fame, i pescatori che non pescano più: ebbene, se tutti questi debbono morire di fame, beh, che lo facciano in silenzio, senza disturbare, con ordine e disciplina, allineati e coperti. Possibilmente in fila. Senza creare disagi. Davvero una bella Sicilia, quella che abbiamo sotto gli occhi.

Peccato, però, che la protesta monta. E dalla Sicilia sale verso le altre regioni del Sud. Perché disoccupazione e fame crescono. Non solo. La notizia è che agricoltori e pescatori siciliani non vogliono morire. E non vogliono stare zitti. Vogliono parlare, gridare e protestare. In Sicilia e a Roma.

Certo, c’è il rischio che la mafia – con tutta questa disoccupazione in giro – riprenda quota. Ma non scendendo in piazza, come pensano gli ‘intellettuali’ di cui sopra, ma sostituendosi in silenzio a titolari delle imprese. Ma di questo, chissà perché, nessuno parla.

Giulio Ambrosetti
Fonte: linksicilia.it