L’Eco di un ponte

In un territorio colpito da endemica disoccupazione, appare ancora giustificato l’entusiasmo che pare suscitare un progetto che, quantomeno, possa servire a smuovere le acque dell’immobilismo imprenditoriale, a creare una speranza di lavoro, a testimoniare un cambio di rotta nelle attenzioni delle autorità italiane nei confronti della Sicilia. 
 
Del resto, sembra che a Messina, oggi, il fronte dei no al ponte sia in netta diminuzione, grazie alla presa di distanze che i messinesi stanno prendendo dal no-ponte per antonomasia, il sindaco Accorinti, ma soprattutto grazie all’idea della costruzione di quel ponte per l’attraversamento dello stretto percepita come l’ultima possibilità di futuro, l’ultimo treno che tarda pero’ pure…a partire.
 
A questo punto sarebbe utile contrapporre le ragioni della mente alla costruzione di quel Ponte, ricordando la mancanza di strade ed autostrade, le ferrovie ancora a scartamento ridotto, il dissesto idrogeologico dei territori, gli affaristi legati alla politica. Sarebbe utile contrapporre le ragioni del cuore e il sapore della memoria (ormai fuori moda, come i capelli lunghi) al materialismo a al progresso.Ma non lo facciamo, convinti come siamo che quel ponte non ci legherebbe soltanto al continente, ma ci lascerebbe collegati alle grandi linee strutturali continentali e farebbe della Sicilia l’avamposto europeo verso il bacino mediterraneo, Africa e Medio oriente 
 
Il progetto presentato negli anni 90 e che ogni giorno sopporta nuove modifiche come  i piloni oggi previsti di quasi 383 metri di altezza e fissati a 50 metri di profondità, la lunghezza arrivata a 3.300 metri – al momento certamente prioritaria, necessita pero’ di una quantità di fondi che bisogna ancora trovare. Si è calcolato che bisognerebbe congelare 1,3 miliardi di euro dalla finanziaria per il Ponte e, a fronte dei bisogni di messa in sicurezza degli stessi territori, in realtà significherebbe  per lo Stato un’esborso di 6,3 miliardi finali (2017) cioè 138 milioni annuali.
 
Tenuto poi conto che la cementificazione del litorale interessato raggiunge il 63% del territorio, con nuclei edificati pari al 74% dello stesso,(  oggi in quelle coste possiamo contare 149 case per chilometro), appare perciò proibitivo sobbarcarsi al costo necessario per il materiale che serva a quei cantieri, quantificato in 3.540.000 m3 di materiali inerti e a 6.800.000 di prodotti da cava.
 
Ritorna quindi la necessità di interventi urgenti per riordinare il territorio siciliano: innanzitutto un Patto per le Coste per riportare a 1000 metri la richiesta di una possibile autorizzazione alla concessione edilizia, come hanno fatto in Sardegna, il popolo fiero, e non i 150 metri previsti dalla regione siciliana, quindi la sospensione del piano casa e la messa in mora dei Piani regolatori Comunali che devono obbedire a due strumenti necessari come il piano di assetto idrogeologico e il piano paesaggistico prima di poter essere presentati , votati e divenire operativi.
 
Così immaginiamo male quel braccio di mare – metafora della nostra stessa esistenza, fonte inesauribile di magie, luogo di mostri e pesciluna – attraversato da un manufatto di tubi e cemento ad interrompere le maree, stravolgere le falene e i risvolti della memoria. Ma chi vive nel luogo in cui è nato forse non subisce drammaticamente, come succede a chi ne vive lontano, lo sconvolgimento dei suoi luoghi della memoria e vede nuove possibilità di sviluppo e nuove progettualità, ad esempio, nella costruzione di un ponte per l’attraversamento dello Stretto, un’opera che non può essere un “solo”, ma necessiterebbe di essere piuttosto un “unicum” di infrastrutture, purtroppo  al momento inesistenti.
 
Come dimenticare, infatti, che la ferrovia da Napoli a Reggio Calabria viaggi ancora a scartamento ridotto e che una semplice frana,qualche anno fa,  abbia potuto interrompere, per ben 14 giorni, i collegamenti Nord-Sud?
 
Come dimenticare che il sistema autostradale isolano, a distanza di 30 anni quasi, non abbia ancora ultimato il collegamento Messina-Palermo, che è sempre oggetto di frane e smottamenti e che non esistano ancora autostrade interne per collegare Enna ad Agrigento, o Siracusa a Licata?
 
Che dire poi dei porti, abbandonati, noi che da Isola, di porti ed economie marinare dovremmo poter vivere?
 
E che dire del bisogno inappagato d’aeroporti, (insufficienti i soli esistenti di Palermo e Catania, e i surrogati di Trapani Birgi o Comiso ) soprattutto per assicurare i bisogni interni dei Siciliani e per dirottare sull’Isola milioni di viaggiatori e turisti?
 
E che dire della mancanza di una compagnia di bandiera, una compagnia aerea della Sicilia e per la Sicilia, da sempre ostacolata e avversata? Ma certo un ponte, ci dicono, collocherebbe l’Isola sugli standard del progresso, come un tram a Messina o la metropolitana a Catania situerebbe queste città sulla linea delle grandi metropoli continentali. 
 
Perchè adeguarci agli standard di città che non hanno le nostre caratteristiche, perchè omologarci alla città delle nebbie e del nord lontano, noi che viviamo di vento e di luce?
 
Spesso sembra di ritornare indietro nel tempo, confrontati con problemi sempre uguali, oggi come allora, problemi che derivano tutti dall’invenzione di quella colonia Sicilia, attuata dallo Stato centrale attraverso la rapina delle risorse finanziarie esistenti, l’alienazione delle manifatture diffuse, la distruzione delle colture pregiate, e, in tempi più vicini, l’emigrazione, effettiva diaspora delle popolazioni siciliane.
 
I grandi fautori di tali metodi, definiti pragmatismo, sono, ricordiamolo, nomi celebrati nei testi di Storia patria: Garibaldi, Cavour, Depretis, Giolitti, Crispi, in realtà veri maestri di cinismo in un’epoca storica che oggi viene pur rimpianta come alba di democrazia e di libertà. Restava invece notte fonda per il sud che, a distanza di oltre cento anni, vede ancora irrisolta la questione meridionale: Il nord vocato, per grazia divina, allo sviluppo e al benessere, il sud destinato a rimanere colonia, grazie anche e soprattutto al consenso di cittadini parassiti e mafie politiche che rappresentano ancora il vero nemico del meridione.
 
Così è la classe politica siciliana la principale responsabile dell’arretratezza dell’Isola. La classe politica siciliana ha consentito (ed ancora lo consente), che gli interessi siciliani venissero sacrificati a quelli delle regioni forti;  che la nostra agricoltura cedesse di fronte a quella della zona padana; che il turismo venisse supportato piuttosto in Liguria o in Romagna lasciando colpevolmente insufficiente il sistema dei trasporti isolano e alimentando i problemi siciliani dell’acqua e della sua distribuzione attraverso acquedotti fatiscenti (Messina è il classico caso di clientelismo e incapacità gestionale. La classe politica siciliana ha volutamente ignorato l’esistenza di milioni di Siciliani che vivono ed operano nel nord lontano e che sempre hanno dato all’Isola senza nulla mai chiedere.
 
Prima dell’unificazione la Sicilia contava effettivamente su tutti i mercati internazionali. Non solo l’agricoltura competeva direttamente ma anche le manifatture tecniche e meccaniche, i cantieri e le ferrovie.
 
Con l’unificazione si è interrotto il processo di sviluppo della società isolana. Senza una forte tradizione municipale l’Isola si è trovata impreparata: senza un centro e con un centro lontano. Senza più guida l’economia siciliana si è come bloccata, è rimasta alla terra, paralizzata per decenni al lavoro dei campi. Con il conseguente abbandono della terra, alle classi più sfavorite rimaneva una sola drammatica alternativa: la partenza, l’emigrazione, mentre le classi più evolute migravano verso la burocrazia dello Stato centrale.
 
In un’epoca di mondializzazione imperante, lo sviluppo oggi si muove per territori. È il territorio che ingloba ed esprime le conoscenze per il suo stesso sviluppo, è solo il territorio con il suo popolo e il suo capitale che può promuovere perciò benessere. Da tutto ciò discende come corollario la necessità di banche ed istituti di credito locali, insiti nella realtà del territorio, capaci di dirottare il credito verso il territorio, capaci di individuare le esigenze del territorio perchè lo conoscono nei minimi dettagli e ne possono interpretare i bisogni. Ma in Sicilia ciò non è possibile, proprio perchè non esiste più una Banca siciliana, un Istituto di credito capace di finanziare progetti specifici, progetti speculari al territorio, progetti isolani. Tutto è fatto nella sede centrale, lontano dal. territorio e nella completa ignoranza delle reali esigenze dello stesso.
 
La costruzione di un Ponte quindi, come possibilità di riscatto e necessità per l’Isola per recuperare  il ritardo, ma costruzione di un Ponte come questione siciliana , composta certo in mille sfaccettature e che può risolversi soltanto con l’autodeterminazione e l’autogoverno serio e consapevole del Popolo Siciliano, che finalmente deve riappropriarsi della propria storia e del proprio destino.
 
Questione siciliana da affrontare e risolvere con urgenza oggi che il sistema Italia sta arrivando alla deflagrazione delle contraddizioni accumulate per decenni e che una maggioranza di votanti del solo  23% riesce persino a imporre un Ministro presidente che deve dettare regole valide per tutti, mentre “la terra impareggiabile” è costretta a sopportare ulteriori discriminazioni,senza ribellarsi e senza dignità.
 
Eugenio Preta