La reale portata del risultato del referendum ungherese

L’Unione europea, aveva deciso nel settembre dello scorso anno, di porre freno al problema dei rifugiati in arrivo da paesi in guerra, ma soprattutto da aree geografiche in grave crisi economica, attraverso un sistema di quote da ripartire tra i Paesi membri.

Il governo ungherese, dopo un anno di fiera politica di opposizione alle scelte scriteriate dell’UE, tale da far considerare Viktor Orban difensore dell’Europa di fronte alla sinistra liberale-libertaria favorevole al suicidio etnico e culturale del vecchio continente, ha deciso di chiedere il parere dei suoi concittadini ed ha promosso un referendum, chiaro e senza perifrasi, per ottenere il consenso a sottoscrivere l’accordo europeo sulle quote.

Il risultato del referendum non ha raggiunto il quorum fermandosi al 44,35% e, all’unisono con la sinistra mondialista ungherese, la stampa occidentale ha cercato di far passare il referendum come una disfatta totale di Orban. Non è così.

Innanzitutto perché occorre relativizzare la debole partecipazione dei cittadini inquadrandola nella scarsa voglia degli ungheresi di andare al voto, in linea con la loro tradizione elettorale. Secondariamente perché se il risultato dovesse oggi realmente ritenersi una sconfitta di Orban, come allora giudicare il dato del 2003 relativo al referendum sull’adesione all’UE che aveva portato alle urne il 42,05% di ungheresi di cui solo il 37,80% aveva dato il suo accordo?

L’immagine negativa che i media e le tv trasmettono di Orban, sottolineano la partigianeria del microcosmo mediatico europeo. Poco convinti che gli ungheresi avrebbero accettato incondizionatamente il sistema di quote, i media europei avevano preferito mettere in rilievo il tema della possibile astensione per cui, un tasso elevato di astensioni avrebbe tolto al referendum qualsiasi valore, e avrebbe dimostrato la scarsa considerazione in cui era tenuto il primo ministro.

Però, se i progressisti democratici ungheresi avessero avuto realmente motivo di recriminare, avrebbero dovuto farlo non nei confronti del loro primo ministro, ma secondo la tendenza sempre più marcata di voler imporre indiscriminatamente il loro comodo “political correct” alla volontà popolare, a dispetto di ogni regola democratica. Auspicare l’astensione è opporsi alla democrazia, così come affermare che la decisione presa a maggioranza dal Consiglio dei ministri UE il 14 settembre dello scorso anno, avrebbe dovuto essere pregnante rispetto alla libera scelta dei cittadini.

Viktor Orban ha certamente beneficiato degli scandali e delle frodi di cui si sono macchiati i suoi avversari socialisti e oggi conduce una politica patriottica e conservatrice. Ma è riuscito ad abbassare le tasse, ha tenuto a sottolineare l’identità specifica del suo Paese, ha perseguito il benessere della popolazione e tutelato i valori che proteggono uno Stato Nazione dal rischio della decadenza. Naturalmente, tutto ciò, disturba i progressisti europei seguaci del modello “Coudhenove-Kalergi”.

In fin dei conti il referendum ungherese ha raggiunto un obiettivo importante: rimettere in discussione il problema del deficit democratico in Europa. C’è democrazia infatti solo quando c’è un popolo che coscientemente forma una nazione con valori e identità condivisi. Di contro, un mosaico di comunità dotate di diritti particolari e animati da valori divergenti spesso conflittuali, certamente, non può essere considerato una nazione e nemmeno sostituirsi alla sovranità popolare.

Gli ungheresi, che tanto hanno sofferto per non essere stati per lungo periodo un popolo sovrano, pur essendo nazione, oggi vogliono restare Stato nazione per continuare ad essere popolo sovrano e si oppongono alla deriva autolesionista dell’Unione europea che permette alla burocrazia di Bruxelles di imporre l’apparenza delle fredde statistiche di demografia e di economia, alla volontà di sopravvivenza dei popoli.

Il governo ungherese perciò, può oggi rallegrarsi del risultato: il 98,32% degli ungheresi che ha partecipato alla consultazione, ha dimostrato di voler respingere il piano europeo.

Del resto la Commissione esecutiva aveva già manifestato il suo pervicace disprezzo per la democrazia, annunciando che il risultato della consultazione non avrebbe avuto alcun valore legale. Siamo alle solite: per i burocrati in deficit di democrazia, il popolo resta ancora l’ostacolo più insormontabile nell’attuazione del piano di cancellazione dei valori e delle identità europei.

E naturalmente chi, come Viktor Orban interpreta la voglia di democrazia e di identità dello Stato sovrano, viene ritenuto un becero nazionalista da abbattere ad ogni costo, quasi un nuovo dittatore.

Eugenio Preta