Il comparto agricolo europeo e la perversione dei vantaggi comparati

La liberalizzazione planetaria dell’economia è il dogma perseguito dalle autorità dell’Unione. In realtà è solo una perversione della teoria dei vantaggi comparati, sviluppata dall’economista inglese David Ricardo, nel contesto del commercio internazionale.
La tesi su cui si basa è che un paese tenderà a specializzarsi nella produzione del bene su cui ha un vantaggio comparato (cioè la cui produzione ha un costo, in termini di altri beni, minore che negli altri paesi).

Nell’attuale processo di liberalizzazione, i possibili vantaggi comparati non sono più le situazioni tecniche o le condizioni climatiche particolari, ma il dumping sociale organizzato dagli speculatori internazionali che si basa su tre principi: produrre a buon mercato negli inferni sociali ed ecologici del terzo mondo; valorizzare i benefici nei paradisi fiscali e commercializzare i prodotti nelle cattedrali consumistiche dei paesi più ricchi.

La liberalizzazione permette agli speculatori benefici giganteschi, senza contropartita collettiva: ritorna il principio della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei guadagni, una teoria ben seguita in Italia dalla più importante azienda del paese che quando guadagnava divideva gli utili nelle finanziarie di famiglia e quando perdeva riversava sulle spalle della cassa di integrazione statale, le perdite.
Il comparto agricolo europeo dimostra pienamente la perversione dei vantaggi comparati e qui si ritrova tutta l’impotenza degli stati nazione nei confronti di Bruxelles insieme all’attuazione del liberalismo.

Il negoziato con il Mercosur, il mercato comune del sud che comprende Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Venezuela e Bolivia ne è la dimostrazione lampante.
Si tratta dell’accordo di libero scambio per facilitare l’esportazione di prodotti sudamericani verso l’Europa, applicando una forte riduzione dei diritti di dogana che lascia disperati gli agricoltori europei.

Nei paesi Mercosur l’accordo con l’UE porterà ad un forte aumento delle esportazioni dal momento che il clima produttivo è particolarmente favorevole, i produttori agricoli non sono sottomessi alle stesse norme sanitarie esistenti in Europa ed i costi di produzione sono meno onerosi.
Prodotti sudamericani peculiari come bovini, ovini e volatili si riverseranno “esentasse” sul mercato europeo, cosa che aggraverà la situazione del settore agricolo in un momento certamente inopportuno.

La Commissione europea cerca di minimizzare l’impatto della fine dei diritti di dogana, convinta che gli europei non andranno a comprare carne argentina piuttosto che quella proveniente dagli allevamenti europei, ma – con una spiegazione logica aberrante – compreranno sì carne argentina, ma in sostituzione di quella americana.
L’Europa si è sempre difesa dall’accusa di voler imporre le sue convinzioni ai popoli senza il loro accordo, pretende di avere tutte le caratteristiche di una democrazia partecipativa e di essere pioniera in materia e tende a minimizzare il suo ruolo nell’applicazione delle direttive europee, lascia libertà vigilata ai governi nazionali ed interviene solo quando un paese è a rischio fallimento.

Comunque sbaglieremmo a scaricare tutte le responsabilità sulla tecnocrazia europea.
Il vero motore delle direttive che gli Stati si affrettano a trasporre nella loro legislazione “il famoso primato del diritto comunitario” è rappresentato dagli interessi finanziari.

Così, per la teoria dei vantaggi comparati poco importa che piccoli produttori vadano in fallimento. Interessa solo che i grandi gruppi possano produrre e vendere.
Stiamo azzerando le nostre eccellenze; addio allora alle grandi fattorie, alle vecchie imprese familiari, ora soltanto smisurate stalle dalle mille vacche importate esentasse.