Cresce l’ingerenza dell’UE negli affari interni degli stati membri

Le istituzioni europee non finiscono mai di stupirci. Hanno sostituito al principio del libero arbitrio – che dovrebbe essere consentito ad ogni Stato nazione – quello dell’obbligatoria accettazione di una propria dottrina decisa, senza tener conto del volere dei popoli, nelle stanze della burocrazia di Bruxelles.

I casi di grave ingerenza nell’ambito delle sovranità nazionali sono molteplici. La Commissione europea, ad esempio, sta studiando misure dirette a subordinare il versamento dei fondi europei ad un esame preventivo che serva a stabilire il rispetto dello Stato di diritto, la tutela dell’indipendenza della giustizia e il perseguimento e l’adesione ai valori europei. I Paesi nel mirino dell’Esecutivo sarebbero oggi la Polonia, l’Ungheria e la Romania, tutti e tre attualmente sotto la minacc ia di una procedura sanzionatoria, ai sensi dell’art 7 del Trattato dell’Unione.

Un altro esempio potrebbe essere quello del Consiglio d’Europa, che il mese scorso si è inserito negli affari interni della Russia ed ha intimato a Mosca di autorizzare la candidatura alle presidenziali russe del dissidente Alexei Navalny, inibito nel suo paese per recenti condanne penali. In Russia infatti, a differenza di quanto avviene in molti Paesi dell’occidente, requisito primario per poter essere candidabile è il casellario giudiziario immacolato, cosa che Navalnyi non poteva certo dimostrare. Quindi, la richiesta del Consiglio d’Europa, organo giurisdizionale con sede a Strasburgo, ha dimostrato un‘ingerenza indebita negli affari interni di uno Stato sovrano, con l’aggravante che il tutto era a favore di un cittadino già condannato dalla giustizia del suo paese.

Un altro grave esempio di manipolazione è costituito dal sostegno a pagamento contro la dissidenza. Secondo una documentazione riservata dell’UE, pubblicata però dal Times, la Commissione ha creato nel dicembre del 2016 un fondo speciale destinato a combattere i partiti europei che contestano l’Unione e si sono dichiarati favorevoli ad un’eventuale abbandono dell’Europa. Milioni di euro hanno così finanziato, in tutti i paesi membri, numerosi progetti diretti a difendere e divulgare solo l’idea dell’Europa auspicata da Bruxelles. E pare che proprio la Gran Bretagna, che nel giugno del 2016 ha votato la sua procedura Brexit, sia stato il bersaglio privilegiato, con risultati però, finora deludenti.

La pretesa dell’Esecutivo europeo è quella di costringere tutti gli Stati membri a rimanere ben connessi ai principi del multiculturalismo e del super-stato che costituiscono il dogma di Bruxelles. Per far questo adotta programmi che suonano come una vera e propria propaganda politica di parte, finanziata peraltro, a loro insaputa, proprio dagli stessi Stati membri. L’arrivo in Europa di flussi migratori sempre crescenti, una vera e propria invasione di popoli, costituisce una delle più gravi criticità del continente, tanto che alcuni capi di stato – e il riferimento va doverosamente ai leader dei paesi Visegrad – sono da tempo protagonisti di un fronte, in opposizione alle decisioni di Bruxelles.

“Se continuiamo a non dir niente – è la tesi del primo ministro ungherese – decine di milioni di rifugiati arriveranno nei prossimi decenni dall’Africa e dal Medio Oriente”. Viktor Orban così ha parlato ed ha rigettato gli accordi europei per la ridistribuzione dei migranti. Una posizione che non è stata accettata dai dirigenti europei e per questo viene continuamente attaccato dal Parlamento europeo e dalla Commissione impegnata a mettere sotto accusa proprio l’Ungheria per attentato alle libertà fondamentali. Se la risposta di Orban appare certamente forte, si tratta anche, da parte dell’Esecutivo europeo di un’ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano che troverebbe una sua giustificazione solo se si riferisse ad una situazione di criminalità uscita fuori controllo delle autorità nazionali, ma che non è certo il caso dell’Ungheria attuale.

Una disposizione del trattato di Lisbona – che in passato era stato inserito proprio per allentare la spinta sopranazionale della costruzione federalista – è rappresentato dall’accettazione del principio di sussidiarietà, già iscritto nel trattato di Maastricht del‘92. Si inseriva così un nuovo attore per rafforzare l’influenza degli Stati membri sull’evoluzione dell’Unione europea, introducendo nelle relazioni internazionali, il rispetto di questo principio di sussidiarietà che prevede l’intervento dell’Unione europea solo nei casi in cui fosse ritenuto più efficace di quello statale, e viceversa.

Il principio di sussidiarietà è stato sicuramente il “passe-partout” che ha fatto accettare il Trattato finale di Lisbona anche agli Stati più ostinati, dopo che i popoli di Francia, Danimarca e Olanda avevano bocciato il referendum relativo alla Costituzione europea, ai quali se ne erano aggiunti altri come l’Irlanda, determinando un momento di grave crisi istituzionale.

La sussidiarietà, principio che favoriva peraltro il carattere intergovernativo nelle relazioni tra gli Stati, lasciava aperto lo spiraglio all’esercizio della sovranità nazionale e creava sicuramente una trasparenza del processo democratico consentendo analisi, discussioni e anche critiche. Oggi l’Unione europea non sembra essere in grado di accettare il diritto di critica e ribatte solo imponendo, agli Stati che si oppongono al dogma corrente, il suo potere sanzionatorio.

Misure che possono configurarsi come un vero e proprio abuso di autorità che alla fine offusca il concetto di democrazia e ci obbliga a guardare con rinnovata speranza, qui all’Ovest, quello che sta avvenendo nell’Est del nostro vecchio continente: la forte richiesta di democrazia che passa ormai dal ritorno all’esercizio delle sovranità nazionali.

Eugenio Preta