Il ritiro britannico dall’UE e il problema dell’inglese fin ora lingua ufficiale dell’Europa

Dal prossimo 1° novembre, giorno di tutti i Santi, la Brexit dovrebbe diventare effettiva vincendo ogni velleità rivendicativa dei preppy progressisti della City, che oggi addirittura ritengono persino di convocare un nuovo referendum come se il voto del 53,7% dei britannici fosse nullo e non avvenuto. Da quella data quindi, la lingua di Albione cesserà progressivamente di essere la lingua veicolare di lavoro e di comunicazione all’interno delle istituzioni europee.

Entrato nel 1973 nell’allora Comunità economica europea, il Regno Unito, aiutato dal supporto dei paesi nordici, è riuscito ad imporre la lingua inglese come lingua ufficiale a scapito delle lingue dei Paesi fondatori più forti: il tedesco e soprattutto il francese che fino ad allora primeggiava nei luoghi di riunione abituali: Lussemburgo, Bruxelles e Strasburgo, paesi che già erano di per sé assolutamente francofoni. Ripiegati su se stessi e senza alcuna dignità nazionale, i nostri rappresentanti, deputati ma anche funzionari ed impiegati, si erano adeguati ed avevano da tempo abbandonato le velleità di poter praticare l’italiano come lingua di lavoro, implicitamente bloccandone ogni possibile visibilità.

Da domani, con il ritiro della Gran Bretagna dall’UE, si aprirà la questione su quale dovrà essere lingua di lavoro e di comunicazione istituzionali in sostituzione proprio dell’inglese che a quel punto sarà lingua ufficiale di un solo Paese, l’Irlanda e dei suoi 5 milioni di abitanti, il 10% dei quali, tra l’altro, si esprime in gaelico, diventato lingua ufficiale, quindi con il diritto di pubblicazione degli atti in quella lingua, solo alla fine degli anni 90.

Del resto sarebbe poco opportuno che l’Unione continui a lavorare nella lingua di un Paese che non è più interno e per di più una lingua parlata da avversari poco malleabili come gli americani. A questo punto il francese, praticato evidentemente in Francia, in Belgio, Lussemburgo e anche in parte della Svizzera, quasi 80 milioni di utenti e il tedesco parlato in Germania e in Austria, circa 100 milioni di utenti, dovrebbero contendersi il “palmares”.

Ma il francese ha qualche vantaggio in più sul tedesco: è una lingua internazionale in piena espansione che si prevede passi dai 360 milioni al 600 milioni di utenti orbeterrarum entro il 2060; è una lingua latina come l’italiano e il romeno e soprattutto come spagnolo e portoghese, anch’essi grandi idiomi su scala mondiale. Per quel che concerne gli utenti slavi, dai polacchi ai bulgari, ai cechi ed ai serbo croati, si presentano poco numerosi oltre che poco omogenei.

Dare quindi ai servizi della commissione la scelta di una grande lingua germanica e nordica e di una grande lingua latina più meridionale, potrebbe l’opzione più plausible. Questo non impedirà l’utilizzo della ventina di lingue nazionali nei grandi dibattiti di assemblea, nei lavori di commissione parlamentare e nella panoplie dei documenti ufficiali, delle cabine di interpretariato simultaneo, nei servizi di traduzione: ancora il dispendioso incubo di una Babele comunitaria

Togliendo il disturbo la Gran Bretagna potrebbe renderci un doppio favore ma aprire anche un nuovo dibattito: la sopravvivenza del sistema di Bruxelles e, ipso facto, dello stesso sistema euro, nel momento in cui molti Paesi ne discutono il valore, e riportare in primo piano la valenza della Francia e della lingua francese, grazie al patriottismo ed al coraggio di quelli che abbiamo mandato, con un voto inutile, a rappresentare gli interessi dell’Italia (e della lingua italiana) in Europa.

Eugenio Preta