A proposito di monete siciliane antiche … e moderne

L’Altra Sicilia ritiene di un certo interesse e perciò vuole proporre ai suoi lettori un’introduzione a quelle che erano le monete del Regno di Sicilia (1060-1860) a riconferma del fatto che la nostra storia non inizia con Garibaldi e non è certo così barbara come vuole il volgare stereotipo delle “dominazioni” che avrebbero contraddistinto la nostra storia fino all’unificazione con l’Italia ed a monito per eventuali future riforme del sistema monetario.

Tralasciamo l’Antichità, anche se va detto che nelle pòleis dell’antica Sicilia erano diffuse fra le più belle monete dei tempi, apprezzate nel commercio internazionale quando ancora nell’Italia centrale e settentrionale predominava il baratto. Seguirono le monete romane, bizantine ed arabe secondo le grandi fasi della nostra storia.
Da notare è il fatto che durante il Medio Evo la Sicilia non fece mai parte del mondo Romano-Germanico, ma fu invece preservata dalla grande barbarie in cui questo visse, prima per merito dell’Impero Bizantino e poi dei Saraceni. Nel mondo Romano-Germanico l’oro era sparito del tutto e con esso la stessa moneta. Quando Carlo Magno volle mettere un po’ d’ordine istituì la “libbra” d’argento, non quale vera moneta (nessuno ne coniava più) ma quale unità di peso e di valore, cioè come unità di conto nominale. Da questa barbara libbra deriva il nome di quasi tutte le monete italiane preunitarie del centro-nord (le lire toscane, piemontesi, romane, milanesi,…) e, ovviamente, la ben nota “liretta” italiana andata da poco in pensione; ma da quella deriva anche il “pound” inglese che significa esso stesso, appunto, “libbra” e così pure le “lire” francesi, sostituite da Napoleone con i noti “franchi” e così via…
Nulla di ciò in Sicilia! La Sicilia non perse mai la circolazione monetaria. Anche sotto la decadente dominazione bizantina le città non erano scomparse ma solo ridotte di dimensione e l’oro di Bisanzio circolava, poco, ma circolava.



Sotto gli Arabi, passato il caos della prima conquista, le cose andarono ancor meglio. Gli Arabi impararono in fretta dai Persiani e dai Bizantini a coniare l’oro e l’argento e in breve furono i più ricchi dell’epoca…
Ma fino alla venuta dei Normanni non si può parlare di una vera monetazione specificamente siciliana.
I Normanni si insignorirono di Messina nel 1060; fu questo il primo avamposto per la successiva conquista dell’isola e per la costituzione di una nuova monarchia europea (solo nel 1130 Ruggero II fu incoronato Re di Sicilia).



Fu lì, prima in maniera confusa e improvvisata, mutuando tradizioni bizantine e saracene, poi più ordinatamente, soprattutto sotto la monarchia di Federico Imperatore, che il sistema monetario siciliano si andò assestando con i caratteri che mantenne sino all’unità d’Italia. E la forza della moneta siciliana, l’Onza, fu anche simbolo della forza politica del suo Regno, anche in epoche considerate in relativo di decadenza.
Se andate a prendere un manuale qualunque di storia economica trovate scritto che le monete d’oro furono riportate in Europa dalle repubbliche marinare italiane e soprattutto da Genova, in speciale rapporto con l’Impero d’Oriente. Questa affermazione è vera e falsa al contempo. E’ falsa perché fu la Sicilia la prima ad avere monete d’oro nell’occidente europeo, sin dalla conquista normanna e ad estenderle progressivamente all’Italia meridionale da questa controllata; è vera nel senso che la Sicilia non apparteneva del tutto a quella latinità occidentale che era stata tagliata fuori dalla circolazione aurea già dai tempi del Basso Impero, ma aveva semplicemente continuato, sotto il nuovo regime, un ordinamento economico mai interrotto.
Le monete siciliane erano di oro, di argento e di moneta divisionale (rame) per gli spiccioli. Anche quando la Sicilia perse la piena indipendenza (agli inizi del XV secolo) la sua bilancia commerciale restò attiva e la zecca di Messina continuò a produrre tagli aurei che, per la loro ottima qualità, spesso venivano “tosati” dai commercianti.



Nella seconda metà del 1600 Messina fu punita per la sua ribellione e la zecca fu spostata a Palermo dove rimase da allora in poi.
Infine, dopo l’incoronazione di Carlo III (IV in realtà, ma il discorso sarebbe lungo) di Borbone nel 1735, si stabilì la parità fissa tra le monete siciliane e quelle napoletane; preludio questo ad una parziale unificazione della monetazione delle Due Sicilie che si ebbe dal 1816. A proposito di monete “napoletane”, cioè del Sud Italia, queste pure erano derivate da quelle normanno-sveve, ma, dopo il Vespro, avevano preso un’altra strada e quindi avevano assunto valori via via divergenti da quelli isolani.
Ma veniamo a queste monete cercando di capire quanto valevano.



Un’Onza Siciliana (anche detta Oncia), moneta d’oro per eccellenza e unità di conto del Regno, fu fatta pari nel 1860 a circa 12 lire e 75 centesimi (per l’esattezza lire 12,74611). Il valore intrinseco della moneta era superiore a quella napoletana cui era collegata, ma il legislatore fissò quelle parità in modo irreversibile (un po’ come è avvenuto di recente tra lira ed euro, con le “fregature” che derivano sempre in questi casi). Detta Onza aveva un suo simbolo grafico, un po’ come la £, il $ o l’€, ed era simile ad una V coricata su un fianco e con una delle due gambe arrotondata (quella in basso) e l’altra retta (quella in alto); essa si suddivideva in 30 Tarì (d’argento), 600 grani (di rame) e 3600 pìccioli (unità di computo minima).
Un tarì, pertanto, equivaleva a 0,42487 lire del 1860 e si suddivideva in 20 grani e 120 piccioli. Il Tarì, più pratico e diffuso dell’Onza, ne aveva lo stesso simbolo ma con la gambetta inferiore segnata da un taglietto.
Il grano, ancora, corrispondeva a 0,02124 lire 1860 e si divideva in 6 piccioli. Il picciolo, infine, corrispondeva a 0,00354 lire 1860.




Ricapitolando:
6 piccioli facevano 1 grano
20 grani facevano 1 Tarì
30 Tarì facevano 1 Onza.




Ma quanto valevano realmente queste monete? E’ difficile dirlo perché i beni e servizi disponibili sul mercato sono cambiati di molto nei secoli e la stessa Onza non ebbe sempre lo stesso valore. Si può tentare un’equivalenza a partire dai tagli minimi, i quali servivano per tenere conto delle minime variazioni di valore, ma che non vennero più coniati nel tempo perché il costo del loro conio ne eccedeva il valore.
Secondo nostre ricostruzioni 1picciolo di rame, quasi mai coniato, valeva circa 5 centesimi dell’attuale euro.
Così i 3 piccioli di rame, detto anche “terdenari”, pari a mezzo grano, valeva circa 15 centesimi ed era la moneta più piccola in circolazione.



1 grano di rame si può così porre pari a 30 eurocent.

2 grani di rame pari a 60 eurocent

3 grani di rame pari a 90 eurocent

5 grani di rame pari a 1,5 €; talvolta, raramente,

questa moneta era coniata, piccolissima, in argento ed era detta cinquina (pari a 1/4 di Tarì);

10 grani di rame pari 3 €;
anche questa moneta era coniata, più piccola, in argento, ed era detta in tal caso 1/2 Tarì.



1 Tarì d’argento era pari a 6 €; da dove parte l’antica monetazione argentea – non è un caso – corrisponde oggi la soglia sopra la quale si preferiscono le banconote alle monete.


2 Tarì d’argento erano pari a 12 €.

3 Tarì pari a 18 €.

4 Tarì pari a 24 €.

6 Tarì pari a 36 €.


12 Tarì infine erano pari a 72 €; tale moneta era anche comunemente detta “scudo”; con essa finivano le monete di ampia diffusione (un po’ come oggi si trovano raramente tagli sopra i 50/100 euro).

1 Onza d’oro, pari a 2,5 scudi, o meglio a 30 Tarì, era del valore di attuali 180 €.

2 Onze d’oro, la cosiddetta “Doppia Oncia” o “Doppia”, erano, infine, pari a 360 €.


Le monete d’oro erano usate per le più grandi transazioni e non erano dati tagli superiori a quelli evidenziati se non con “polizze” o altri equivalenti dei moderni assegni o carta moneta emessi dalle banche pubbliche del tempo (le “Tavole” di Palermo e di Messina).


Nel Regno delle Due Sicilie (1816-1860) la monetazione siciliana non fu più coniata (tranne un’eccezione negli anni ’30 in cui furono coniati un po’ di spiccioli sotto forma di “grani siciliani”) ma restò unità di conto nelle provincie “al di là del Faro” e, peraltro, emessa in forma cartacea, dal “Banco dei Regi Domini al di là del Faro”, antenato del Banco di Sicilia. Tuttavia l’Onza siciliana e non il Ducato napoletano era la vera moneta di computo dell’intero Regno, come è testimoniato dal fatto che le monete di maggior valore coniate non erano multipli naturali della seconda ma della prima: Ferdinando II coniò due “monetone” d’oro: i 15 Ducati (in realtà 5 Onze Siciliane, pari a circa 900 € di valore) e i 30 Ducati (in realtà 10 Onze Siciliane, pari a circa 1800 € di valore). Furono questi i tagli più alti che la monetazione siciliana ebbe in assoluto.
Per capire però il rapporto tra la monetazione siciliana e quella napoletana devono introdursi alcune semplici notazioni.


1 picciolo siciliano equivaleva a 1 cavallo napoletano. Ora, mentre 6 piccioli facevano 1 grano “siciliano”, 12 cavalli facevano un grano “napoletano”. Era consuetudine che le monete napoletane valessero il doppio delle omonime siciliane ma la quantità di metallo pregiato era più scarsa, segno della maggiore ricchezza dell’isola rispetto al continente e del privilegio accordato dai sovrani borbonici a quest’ultimo.
Così 1 grano napoletano valeva 2 grani siciliani. 10 grani napoletani facevano 1 carlino che così equivaleva al Tarì siciliano. Esisteva pure una moneta da 2 carlini che prendeva il nome di “tarì napoletano” che così valeva il doppio del corrispondente siciliano.
10 carlini infine facevano 1 Ducato, la vera unità di computo del napoletano. 1 ducato era pari a 10 tarì siciliani ed ad un terzo dell’onza siciliana. Esisteva pure una moneta da 6 ducati, pari a 2 onze siciliane, che chiamavano “oncia napoletana” ma che, per il poco oro contenuto, era detta anche “oncetta”. Come abbiamo detto, le monete massime erano quelle da 15 e 30 ducati che, in realtà, erano di 5 e 10 onze siciliane.

Riassumendo, a Napoli c’era quasi un sistema decimale:

1 Ducato si divideva in 10 Carlini

1 Carlino in 10 grani

1 grano in 12 cavalli, ma ci fu anche un tentativo di suddividerlo in 10 cavalli.




Quali erano le immagini coniate sulle monete siciliane?
Sul recto delle monete d’oro e d’argento era immancabilmente l’effigie del sovrano: la Sicilia era una monarchia. Sul verso erano varie immagini, cambianti da un secolo all’altro.
Riportiamo le ultime più diffuse nel XVIII secolo.
Intanto, in generale, tranne le ultimissime, non c’era scritto quanto valevano. Si riconoscevano dalle dimensioni, dal peso e dalle immagini impresse.



L’Onza pesava circa 4,4 grammi, era d’oro, aveva un diametro di 22 mm, ed aveva un’enigmatica araba fenice che sotto il sole bruciava e con il motto iscritto in latino: “resurgit”. Il senso era che l’Onza, simbolo stesso dell’oro e quindi della ricchezza mobile, era destinato ad essere speso, ad essere investito per poi “risorgere” come l’araba fenice dalle sue stesse ceneri. Ci sarebbero molte considerazioni da fare sulla finezza teorica dei nostri avi in materia di economia: basti solo dire che l’etimologia della parola “risorse” è la stessa dell’iscrizione nella moneta siciliana.
La Doppia Onza aveva vari simboli, spesso legati alle dinastie dominanti. Uno dei più belli è la Trinacria tra due corone d’alloro del 1814. Pesava 8.8 grammi, era d’oro ed aveva un diametro di 25 mm.
Tutte le Onze avevano un contorno in rilievo, cordonato o rigato. Anche quelle occasionalmente coniate in Argento: queste ultime erano “enormi” monete d’argento: 56 mm di diametro, 68,3 grammi circa di peso e spesso avevano l’araba fenice disegnata in maniera più precisa ed artistica come consentiva il maggiore spazio a disposizione. In questo caso l’iscrizione era “EX AURO ARGENTEA RESURGIT”, come a dire: dall’oro risorge sotto forma d’argento (ma sempre denaro è).



I 12 Tarì avevano come immagine sul verso l’Aquila coronata di Sicilia (la stessa che aveva portato l’Imperatore Federico, la stessa dello stemma dello Stato di Sicilia, la stessa che sventolava sulle navi della flotta siciliana), erano d’argento, pesavano 27,3 grammi circa ed erano 40 mm di diametro.
I 6 Tarì avevano come immagine la “croce greca” di Sicilia in cui ciascun braccio era sormontato da una corona: antichissimo simbolo isolano, forse risalente agli stessi Siculi, erano d’argento, pesavano circa 13,6 grammi ed erano 34 mm di diametro.
I 4 Tarì avevano di nuovo l’aquila, che si alternava così alla croce, erano d’argento, pesavano circa 9,8 grammi ed erano 30 mm di diametro.

I 3 Tarì avevano di nuovo la croce, erano d’argento, pesavano circa 6,3 grammi ed erano 28 mm di diametro.

I 2 Tarì avevano di nuovo l’aquila, erano d’argento, pesavano circa 4,9 grammi ed erando 25 mm di diametro.

Il Tarì, aveva ancora l’aquila, era una piccola moneta d’argento di poco più di 2 grammi e circa 20 mm di diametro.

Il 1/2 Tarì (10 grani), aveva una piccola aquila,era pure d’argento, pesava poco più di 1 grammo ed era 16,5 mm di diametro.

Quando veniva coniata, la Cinquina (1/4 di Tarì, pari a 5 grani), era una piccolissima moneta d’argento, con una S nel verso, del peso di 0,6 grammi e del diametro di 11 mm.

Tutti i Tarì avevano il contorno con delle foglie in rilievo.



I 10 grani erano un grossa moneta di rame del peso superiore a 30 grammi e del diametro superiore a 40 mm, con una scritta, in mezzo a dei fregi, in latino: VT COMMODIVS, o PVBLICA COMMODITAS (più rara questa). Significava “per comodità”, nel senso che la zecca quasi si scusava con i cittadini che per le monete più piccole non usava l’oro o l’argento, ma metallo vile. Ma – questo è il senso – lo faceva solo per la comodità di non dover coniare microscopiche monete d’argento. Peraltro queste monetine divisionali erano pienamente convertibili in monete d’argento qualora ne avessero raggiunto il valore.


I 5 grani erano una moneta di rame del peso di circa 21,6 grammi e del diametro di 40 mm con la stessa iscrizione.
I 3 grani erano una moneta di rame di circa 12,8 grammi e di 35 mm di diametro con la stessa iscrizione.
I 2 grani erano una moneta di rame di circa 8 grammi e di 30 mm di diametro con la stessa iscrizione.
Il grano era una moneta di rame di circa 4,2 grammi e di 23 mm di diametro con la stessa iscrizione.
Da notare che nel recto dei grani non era più incisa l’effigie del re ma nuovamente, in tutti, l’aquila di Sicilia.
Il contorno dei grani, come quello dei Tarì, aveva le foglie in rilievo.



Il terdenari, infine, (3 piccioli, 1/2 grano) era una monetina di rame di circa 2 grammi e di 20 mm scarsi di diametro. Aveva nel recto un “aquilotto” di Sicilia, nel verso dei fregi che contenevano il numero 3, il contorno liscio.
Il picciolo – come detto – non era più coniato. Sarebbe stato eventualmente una piccolissima moneta di rame (meno di 1 grammo, circa 10 mm di diametro) a contorno liscio e con la scritta 1 fra i fregi nel verso e una S o una piccolissima aquila nel recto.



Questo il passato.



Nel 1861 la Sicilia adotta la Lira italiana ed entra in unione monetaria con la Penisola, anche se le monete siciliane (specie quelle d’oro) continuarono a circolare per decenni. Ancora vivo è il proverbio: “E’ meghiu un amicu nta la chiazza, ca cent’onzi nta la cascia”, come dire che un amico vale più di 18.000 euro.
Il Banco di Sicilia restò come istituto di emissione per le lire “siciliane” fino agli anni ’20 del XX secolo quando perse questo privilegio e quando le sue ingenti riserve valutarie ed aurifere furono trasferite alla Banca d’Italia senza alcun compenso.
Per riparare a questa ingiustizia e per la considerazione che la bilancia commerciale siciliana era attiva, lo Statuto previde, all’art.40, che presso il Banco di Sicilia, allora ente pubblico, prima della privatizzazione e dell’assalto romano, fosse costituita una “camera di compensazione” derivante dalla bilancia dei pagamenti siciliana (in pratica il saldo della bilancia commerciale, delle partite correnti e dei movimenti di capitale) le cui valute o metalli pregiati eccedenti sarebbero state destinate ai fabbisogni dell’Isola. I poteri forti della Penisola provvidero a non dare minima attuazione a questa previsione ed a trasformare progressivamente la Sicilia in un paese con bilancia commerciale deficitaria dipendente per la propria sopravvivenza dall’esterno e quindi da Roma.

Con l’attuazione dell’articolo 40 la Sicilia avrebbe potuto, anzi “dovuto”, emettere una propria valuta che avrebbe creato condizioni concorrenziali con quella del Continente ed avrebbe forse scritto un’altra storia.
Il Trattato di Maastricht, infine, consegna la Sicilia, con l’Italia intera, all’UEM, Unione Europea Monetaria, con quello che ne deriva.
L’Altra Sicilia non ha come obiettivo quello di uscire da tale contesto, ma di rivendicare il diritto della Sicilia (e questo il senso sostanziale dell’art. 40) ad essere soggetto attivo, per quanto minoritario, della politica monetaria europea. Pertanto le soluzioni possibili sono due:


– o partecipare con un nostro “istituto di vigilanza sul credito” al Sistema Europeo della Banche Centrali e gestire le riserve valutarie in coordinazione con le altre banche centrali europee (si eviterebbe almeno la colonizzazione creditizia che ha strangolato il sistema produttivo siciliano, ma si accetterebbero le politiche monetarie continentali potendo partecipare in maniera minima alla definizione delle stesse);


– o concordare con l’Europa un regime monetario speciale per l’Isola nell’intento di farne una “zona franca” nell’area di libero scambio euro-mediterranea, con la possibilità, per lo Stato Regionale di Sicilia, di emettere una propria valuta sussidiaria a fianco di quella ufficiale europea.


Quali sarebbero gli effetti di questa riforma per noi? Si tratta di un tema complesso che si deve rinviare ad analisi più approfondite ma intanto, ancora una volta, si lancia la provocazione quale spunto per una riflessione politica ed economica realmente coraggiosa.
Si ricordi solo che quando avevamo una nostra moneta, questa era forte e ci dava ricchezza; da quando ce l’hanno tolta, ci hanno tolto tutto perché un’isola non si integra mai del tutto con il Continente, soprattutto quando ha dimensioni di nazione.


Antudo!