Superlega: lo sport principe in Europa rimette in discussione il suo sistema di distribuzione delle risorse

Dopo decenni di acque agitate sui marosi di un possibile scisma, Real Madrid, Liverpool e Juventus in testa, insieme ad altri 9 club europei tra cui Milan e Inter, hanno rotto gli indugi ed hanno creato una società commerciale denominata Superlega, dichiarando di voler avanzare spedite sulla via di una nuova organizzazione calcistica e annunciando persino iniziative legali contro la prevedibile opposizione dell’Uefa, dal 1955 organizzatrice unica della Coppa dei campioni.

Questa Superlega è oggi la proposta indecente di qualche club, spinto dall’avidità e dai debiti, pur sempre a discapito degli innamorati del calcio. Dopo averci tolto la possibilità di sorridere con l’obbligo delle mascherine, oggi tentano di rubarci persino l’illusione di sognare. Non voglio fare l’esegesi di questo sport, né la critica erudita del “panem e circenses”, non è questo il senso, ma mi chiedo ancora quale ragazzino non abbia trascorso interi pomeriggi a giocare al pallone per strada, in cortile, o all’oratorio durante la ricreazione.

Il calcio, è vero, è uno sport di massa, ma sempre considerato un gioco meraviglioso accessibile a tutti: tradizione popolare e persino cultura nazionale. Dalla strada – dove bastavano solo una palla, quattro pietre, per segnare la porta, un terreno poco frequentato, o ancora meglio una strada secondaria e non c’era bisogno d’altro per trascorrere interi pomeriggi a giocare e soprattutto crescere nello spirito – allo stadio: l’atmosfera dei grandi incontri, i campionati, le coppe a cui potevano accedere non solo le squadre che potevano schierare i giocatori più famosi, ma anche quelle che grazie a duri allenamenti e sacrifici, schieravano il solito mediano ed esprimevano un gioco che tendeva a ridicolizzare anche la legge del più ricco.

Il poeta argentino, Borges – argentino come gli dei del calcio – come un vero e proprio “non sense” scriveva che “il calcio è popolare perché la stupidità umana è popolare”, identificando nelle squadre di calciatori in mutande e nella folla di spettatori acclamanti, la massa scalmanata degli ignoranti.

Noi italiani, al contrario, abbiamo condiviso la linea segnata da Pier Paolo Pasolini che ne faceva un profondo segno distintivo e pensava che chi non conosceva il codice di questo sport, “non capiva il senso delle sue parole né il valore dei suoi ragionamenti”.

Grazie a Florentino Peres, ad Andrea agnelli, tra gli altri – sempre uno di quella famiglia a spaccare il sentimento – Borges e Pasolini diventano antichi, sorpassati nello spirito: il calcio non sarà più sacrificio e passione ma solo vile interesse economico. Non potendolo fare sul campo perché ci sarà sempre uno Juric o un Italiano a sovvertire i pronostici, Juventus, Milan e Inter per quel che riguarda l’Italia, hanno deciso di chiudersi in un iperuranio grazie alla banca JP Morgan che, fiutato l’affare, si è detta disponibile a rifondare con 3,5 miliardi ognuna delle 12 squadre élite. Grasso per lubrificare quelle casse societarie in sofferenza.

Il calcio è stato uno sport glorioso perché è incerto, ingiusto, a volte sconvolgente. Adesso sarà più prevedibile, più pianificato, più scritto: 11 partite all’anno, pagate miliardi di euro dalle Tv per la ritrasmissione dei diritti televisivi, dagli sponsor per apparire tra le élite, con buona pace delle scuole calcio, dei vivai, dei campionati primavera e di quelli allievi. Addio al merito e al talento, piuttosto la società contemporanea scrive ora il paradigma dell’equivalenza danaro/potere piuttosto che quello del sacrificio/successo.

Il calcio era sport drammatico perché dall’euforia più grande si precipitava nella delusione più cocente, in pochissimi secondi. Oppio dei popoli ma anche rivincita di popolo. E adesso, grazie a questa Superlega, il popolo sarà bandito, non avrà più niente da dire: solo assistere in silenzio alla cerimonia che 12 club avranno deciso di mettere in scena dopo averla venduta al sistema televisivo mediatico. Ormai in una società pianificata, che niente è disposta a lasciare all’imprevedibile, anzi fa di tutto per cancellare quello che non ha pianificato e soppesato economicamente perché tutto si lega al vile danaro.

Non conta più l’onore, la dignità, la parola data, la difesa di una bandiera, conta solo il miraggio del ricavo economico: 12 squadre, piene di debiti, in difficoltà persino a pagare i lauti stipendi da corrispondere mensilmente ai loro allenatori (dai 14 milioni a Conte ai 50 milioni ad un calciatore decotto…si vedono offrire la manna di miliardi che saneranno sicuramente qualche debito ma che ne occasioneranno tanti altri, grazie a JP Morgan, che di professione non fa certamente il mecenate sportivo, ma come Suss, il banchiere assetato di moneta.

Venerdì prossimo si riunirà il comitato esecutivo dell’Uefa che dovrebbe decretare l’esclusione dei club ribelli, con l’aggravante dell’incertezza che colpisce le semifinali della Coppa dei campioni che vedono in lizza tre delle squadre ribelli e la possibilità che la quarta squadra finalista, la francese del Paris SG per il momento club fedele all’Uefa, si veda assegnare la Coppa per forfait.

Con la Superlega in fieri, il calcio è diventato merce di un sistema commerciale, icona di imprese ricchissime che promuovono il mondialismo, delocalizzato, come tutti noi lo siamo. Globalismo e sentenze giudiziarie (Bosman docet) ce lo avevano dissacrato e ridotto a semplice impiego di concetto, sottomesso alle valutazioni economiche che non permettono l’affermarsi del genio, del giocatore veramente al di sopra di tutti gli altri.

Ormai siamo una società che impone il marchio e la legge dell’economia, ma anche la necessità della sorveglianza permanente che impegnava annualmente buona parte delle finanze dei club. Steward negli stadi, polizia antisommossa fuori, i daspo, i tornelli, le perquisizioni, i divieti di trasferta alle schiere dei tifosi più esagitati, ce ne accorgiamo, guardando le televisioni a pagamento, riservate alle “Elites” che ora condannano alla fine un modo di vivere che pur si faceva a margine dello stadio, e ne costituiva poi l’essenza più genuina. Lo vediamo con i milioni che l’Uefa distribuiva ai vincitori… dopo aver rimpinguato di altrettanti milioni le casse di Sky, Mediaset o TV pubbliche. Soldi che alle 12 sorelle non bastano più e soprattutto che non vogliono più dividere con squadre che le hanno pure battute sul campo ma che non sono élite ma plebe come ad esempio Benevento, Spezia, o Verona hellas.

Ho amato tanto questo sport da bambino, e ancora ora ne ho tanta voglia, ma oggi è sempre più difficile e tutto tanto triste.

Eugenio Preta