SICILIA: SOGGETTO DI ILLEGALITA’E DI AUTODETERMINAZIONE

Accennando alle illegalità in Sicilia i buontemponi pensano subito al solito stereotipo mafioso. In quanto a illegalità, invece – posto che esista una Mafia come quella confezionata nei laboratori italiani – voglio rifarmi allo status giuridico della Sicilia rispetto al suo, o ai suoi colonizzatori. È vero che c’è confusione, ma è pur necessario, almeno una volta, venirne a capo stabilendo che attorno a noi TUTTO È ILLEGALE, perché viviamo in un paese illegale e – si sa – da illegalità nasce altra illegalità. Il fatto che i politicanti vanitosi si appaghino proponendo ed emanando leggi col proprio nome, che poi verranno citate negli atti pubblici, non vuol dire niente ed anche meno.
Duecentocinquantamila leggi servono a deteriorare il paese, non a regolamentarlo.

Gli slogan pubblicitari, come “La legge è uguale per tutti”
non aiutano a moralizzare i rapporti tra Sicilia e Italia. Resteremo sottomessi
all’ingiuria di un comportamento arrogante e sommersi da valanghe di parole
vuote di senso.
Acclarato quindi che la legge NON è uguale per tutti e soprattutto non
é rispettata da chi legifera, è utile ripercorrere tutte le illegalità,
sin dall’inizio dell’invasione di Garibaldi.

1. – L’occupazione dei garibaldini resta delegittimata
principalmente perché mancante di copertura legalitaria. Garibaldi non
risultò autorizzato a quell’impresa da nessun paese costituito,
tra i tanti che allora dimostravano voglia di espansionismo. Si trattò
di un’impresa personale arbitraria e perciò piratesca. Mancando
i crismi della legalità essa assunse la fisionomia inconfondibile di
un atto banditesco il cui successo, più che alle armi o ai falsi eroismi,
va attribuito al comportamento costruito su inganni e promesse non mantenute.
Occupata illecitamente l’Isola, Garibaldi se ne proclamò dittatore,
ponendo i Siciliani alla frusta, depredandoli e fucilandoli sulle pubbliche
piazze ancor oggi fumiganti di sangue.

2. – A Teano, poco dopo, né Garibaldi né Vittorio
Emanuele II°, re del lontano Piemonte, erano abilitati a manipolare una
popolazione come quella siciliana, nonostante risultasse ormai devitalizzata
e ridotta a pecorume. In quell’occasione, inoltre, il dialogo avvenne
tra il Dittatore Garibaldi e il Re del Piemonte, non con l’Italia che
non esisteva ancora. È anche importante ricordare che a quel tempo era
di moda l’espansionismo coloniale e che tra Sicilia e Piemonte mancava
la continuità territoriale che vagamente potesse giustificare il concetto
giuridico di “annessione” o, più opportunamente, di “incorporazione”.

3. – Più tardi quegli stessi protagonisti ritennero
di dover formalizzare lo status della Sicilia con il noto referendum unilaterale,
impropriamente organizzato da un paese straniero. L’istituto referendario,
in genere, comporta la pronuncia dei cittadini su una norma giuridica emanata
o da emanarsi o da rettificare, o su una decisione – come nella fattispecie
– che comporti un mutamento dello status nazionale. Si costituiscono diversi
gruppi di elettori che propongono le rispettiva alternative tra le quali poter
scegliere. In definitiva il referendum (o plebiscito) tende a regolarizzare
o innovare una condizione interna pregressa e, perciò, torna anomalo
che in quell’occasione sia stata una nazione straniera ad occuparsene.
Tanto più che la modalità adoperata non rivelò certo alcuna
coerenza giuridica. Su circa tre milioni di Siciliani furono chiamati a votare
432.720 elettori, selezionati per censo, per cultura (i Siciliani di allora
erano in gran parte analfabeti!) e per già avvenuta ascarizzazione e
furono altresì pilotati dal terrore dei fedelissimi di Garibaldi. Di
costoro 432.053 di espressero per l’appartenenza al Piemonte (non all’Italia).
Le schede elettorali erano di colore diverso per il “sì”
e per il “no” e le operazioni di voto furono impropriamente presidiate
da militari piemontesi in assetto di guerra, che controllavano il colore della
scheda prelevata dagli elettori. Il trionfo del “Sì”, quindi,
non rivelò la volontà dei Siciliani di appartenere al Piemonte
già inviso né, tanto meno, all’Italia ancora in fase progettuale,
ma più verosimilmente dimostrò il diffuso timore di incorrere
in future rappresaglie. Con la presenza illegittima dei militari piemontesi
si rileva come ogni operazione fosse improntata all’insegna della superficialità
e all’esigenza di sanare al più presto una clamorosa invasione
territoriale. Quel referendum è quindi da considerare giuridicamente
NULLO per vizio di forma e di sostanza, per cui NULLI devono considerarsi tutti
gli atti successivi ad esso riferiti.

4. – Per il Diritto Internazionale l’incorporazione NON
è sinonimo di annessione. L’annessione si ha allorché uno
Stato ne annette un altro (che si estingue) compiendo questo procedimento con
procedure e atti formali (appunto: referendum o plebiscito) che presuppongano
la volontà generica di unificazione da parte di entrambi i soggetti.
Come avvenne più tardi in Italia per la Lombardia e la Toscana.

5. – L’incorporazione, a differenza dell’ annessione,
si realizza con procedimenti di fatto (vedi l’invasione del Kuwait). Essa
presuppone l’uso di mezzi violenti e/o illegittimi ed è assimilabile
all’impresa garibaldina
che, oltretutto e a titolo di aggravante, non fu effettuata da uno Stato, ma
da un impresario privato, privo di copertura formale, che poco dopo ne fece
dono al Piemonte già predisposto a sconfinamenti ed espansionismi.

6. – Considerando illegittima l’operazione di Garibaldi
e considerando antigiuridica la farsa referendaria e l’annessione della
Sicilia al lontano Piemonte, anche la sopravvenuta unificazione italiana, per
quanto riguarda la Sicilia, deve ritenersi priva di legittimazione rispetto
al Diritto Internazionale.

7. – Per la correttezza c’è un’ulteriore
osservazione, da non sottovalutare, che va fatta perché caratterizza
meglio lo status della Sicilia.

Ponendo paradossalmente l’ipotesi che le operazioni referendarie
analizzate di potessero considerare ortodosse, resterebbe comunque acclarato
che la decisione dei Siciliani di lasciarsi annettere va riferita al Piemonte
rappresentato dal V.Emanuele II° e solo successivamente – e forse con modalità
anomale – quel consenso fu implicitamente trasferito all’Italia. Si ricorda,
in proposito, che nel 1948 gli italiani, compresi i Siciliani, furono chiamati
ad un ulteriore referendum per la scelta tra Monarchia e Repubblica. Il fatto
che sia risultata favorita l’attuale Repubblica dovrebbe comportare due
problemi per i Siciliani: 1°, la decisione referendaria precedente costituì
un atto pattizio tra “i Siciliani” e la monarchia piemontese, sicchè,
cadendo quella Monarchia, dovrebbero ritenersi NULLI tutti gli atti precedenti
ad essa riferiti, compreso il risultato di quel già atipico precedente
referendum. 2°, Nel referendum che istituì la Repubblica i Siciliani
si espressero largamente in favore della Monarchia.
Fu il resto dell’Italia che predilesse la Repubblica (posto che quelle
turbinose elezioni siano state credibili). Queste considerazioni, che si supportano
a vicenda, dovrebbero ricondurre alla nullità del primo
referendum (se non fosse già nullo per altre ragioni sostanziali) e,
quanto meno, dovrebbero consigliare un’ulteriore prova plebiscitaria che
consentisse ai Siciliani di esprimersi sulla opportunità di riconfermare
la propria appartenenza alla sopraggiunta egemonia italiana.

8. – Il Movimento Separatista Siciliano (MIS), sorto poco dopo
il secondo referendum, ebbe invero le stesse caratteristiche di un fluviale
plebiscito anti-italiano e lo provarono le elezioni post-belliche che fecero
registrare al MIS un autentico trionfo. La preoccupazione dell’Italia
e di altre nazioni europee, nonché degli USA, dimostrò che la
consistenza giuridica delle istanze del MIS era consistente e inalienabile,
tanto da porre il serio problema di come comportarsi per trattenere la Sicilia
legata al nuovo blocco dei paesi occidentali. Erano presi in considerazione,
oltre gli interessi economici, anche gli aspetti geo-politici e strategici dell’Isola.

Il ricorso all’istituto autonomistico, che fu quindi
consequenziale, non va considerato – come spesso avviene – una conquista
del MIS e nemmeno un gentile omaggio dell’Italia. In realtà si
trattò di un clamoroso inganno organizzato ed elaborato dai paesi europei
in sintonia con gli USA e con l’Italia, quest’ultima col ruolo strumentale
operativo. L’Autonomia, quindi, partì con l’intendo iniziale,
da parte dei suoi fondatori, di non farla mai funzionare. Esiste infatti una
dicotomia tra i giuristi che ritengono lo Statuto di Autonomia “specialissimo”
e la realtà che via via lo ha smascherato fino a ritenerlo completamente
inutile.

9. – In verità la funzione politica dello Statuto Siciliano
– com’è detto prima – fu quelle di smorzare l’impetuosità
dei separatisti che destarono palesi preoccupazioni. Lo scopo effettivo che
indusse tutti a strumentalizzare l’Italia per ingannare i Siciliani con
la finta concessione dell’Autonomia, fu quello di mantenere la Sicilia
sotto il controllo europeo sia per le note ragioni strategiche internazionali
e sia per il genere e la quantità di sfruttamenti che essa consente e
che vanno soprattutto a beneficio dell’Italia che, della Sicilia, ha solo
la gestione.
La Sicilia, infatti, non offre solo il fantasma della Mafia, che tuttavia viene
a sua volta sfruttato dagli italiani, ma offre soprattutto degli apporti economici
di straordinaria entità. Tutto ciò premesso, sembra ora opportuno
tornare sul concetto autonomistico. Inteso come strumento giuridico, per la
sua originaria struttura, non v’ha dubbio che l’ applicazione dello
Statuto potrebbe risolvere una gran parte dei problemi
Siciliani. E’ importante osservare che lo Statuto di Autonomia Siciliana
venne alla luce due anni prima della Carta Costituzionale italiana e che, questa,
lo riconobbe come strumento costituzionale incorporandolo tramite l’art.
116 che così recita: “Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino
Alto Adige, al Friuli Venezia Giulia e alla Valle d’Aosta sono attribuite
forme e condizioni particolari di autonomia secondo Statuti speciali adottati
con leggi Costituzionali”

10. La gestione dello Statuto fu subito affidata a personalità
siciliane, politicamente ascarizzate e già arruolati nei partiti politici
italiani i quali, per ragioni di interessi personali e carrieristici, accettarono
di buon grado di ignorare le regole statutarie dando così luogo a due
fenomeni: Il primo, che le regole dello Statuto non venissero applicate in quanto
contrarie agli interessi italiani concomitanti a quelli personali e partitici;
il secondo fenomeno avvenne a cura degli ambienti giurisdizionali italiani i
quali, con un autentico colpo di mano, abrogarono l’Alta Corte prevista
dallo Statuto, a formazione mista paritaria, lasciando così l’intero
strumento statutario alla stregua di una bellissima automobile alla quale sia
stato tolto il motore. E’ perciò palese che una volta evirato dal
suo organo essenziale, lo Statuto di Autonomia ha perduto le sue
funzioni giuridiche-motorie che lo rendevano “speciale”, per cui,
per analogia, non ha nemmeno senso che si spendano montagne di miliardi per
il mantenimento di un immenso e complesso organo politico come l’assemblea
regionale, che non ha alcuna funzione pratica. C’è da considerare
che l’iniziativa abrogativa delle istituzioni italiane – nella fattispecie
della Corte Costituzionale e/o Corte di Cassazione – eliminando l’Alta
Corte prevista dallo Statuto, ha dimostrato apertamente la sottaciuta volontà
politica di vanificare i probabili benefici che potevano pervenire alla Sicilia
dalla sua facoltà di legiferare direttamente sugli argomenti descritti
agli artt. 14 e 17 dello Statuto stesso. E’ anche importante rilevare
che nessuna istituzione italiana, in teoria, è abilitata a modificare
la Carta Costituzionale, di cui lo Statuto è parte integrante, al di
fuori delle prescrizioni e dei riti indicati dall’art. 138 della Costituzione
stessa. Si potrebbe facilmente dedurre che l’abrogazione dell’Alta
Corte Siciliana voglia dimostrare la facoltà dei detentori del “potere
italiano”, in quanto impunibili, di adoperare indifferentemente e spregiudicatamente,
persino le massime istituzioni, in senso opposto agli indirizzi del Diritto.
In ogni caso quest’ultima clamorosa ingerenza si assommerebbe alle precedenti
illegalità (già passate in rassegna) a partire dall’invasione
garibaldina.

Ricordiamo altresì, per la memoria storica e col dovuto
rispetto, che la subdola concessione dello Statuto di Autonomia fu promulgata
tramite i capi storici del MIS che, poco prima, avevano espresso la loro avversione
all’ipotesi autonomistica. Costoro furono prima incarcerati con accuse
formali di competenza della Corte d’Assise, per le quali non è
prevista nemmeno la “libertà provvisoria” prima del rito
dibattimentale; poi furono opportunamente manipolati, traendo profitto dalla
loro condizione di afflizione nelle patrie galere; quindi furono costretti ad
accettare la proposizione autonomistica come strumento per liberarsi dalla galera
ed a promulgarla tra gli indipendentisti come una “loro” conquista!
Non si è mai capito come quei detenuti – Finocchiaro Aprile e compagni
– vennero liberati e secondo quale strumento procedurale.

11. Superando le illegalità fin qui ricordate, perveniamo
alla legge che prevede l’AUTODETERMINAZIONE, che in Italia è (dovrebbe
essere) operante in quanto divenuta legge interna col n.881/77. Essa fu derivata
dalla convenzione di New York del 16/19 Dicembre 1966 e ci riconduce nel
pieno del Diritto Internazionale. La Carta delle Nazioni unite, all’art.1
cpv. 1°, così recita: “…tutte le nazioni hanno diritto
a scegliere liberamente, senza interferenze esterne, il proprio status politico
e sviluppare autonomamente le proprie relazioni economiche e culturali.”
L’inalienabilità di questo diritto, affermata negli atti dell’Assemblea
Generale (ONU), ammette persino, in favore dei popoli in lotta per la propria
autodeterminazione, l’uso della resistenza che si può esplicare,
in ultima istanza, anche mediante il ricorso alla forza, in applicazione del
diritto di legittima difesa.
Questo principio di Diritto Internazionale, sancito dalla firma di tutti i capi
delle Nazioni aderenti all’ONU, (Italia compresa), dal momento in cui
fu convertito in legge interna (881/77) comporta l’automatico impegno
della sua applicazione da parte del paese dominante, ma comporta anche il diritto
a chiederne l’applicazione da parte del paese dominato!
Qualora un movimento, un cittadino, un partito, volessero adoperare strumentalmente
il dettato della legge 881/77, avvalendosi soprattutto delle disfunzioni istituzionali
operate contro gli interessi della Sicilia,
dall’inizio del rapporto, non potrebbero che avere ragione ed avrebbero
il diritto di ottenere la liberazione dell’isola che conserva, tuttavia,
la fisionomia e la consistenza di Paese-Nazione.

Dal 1966, anno in cui fu promulgato il principio dell’Autodeterminazione,
molti paesi lo hanno invocato con successo ottenendo rispettivamente l’ambita
libertà dal colonizzatore. La Sicilia, oltretutto, per le ragioni dianzi
spiegate, non può nemmeno essere considerata, sic et simpliciter, una
colonia dell’Italia perché è solo vittima di un colossale
imbroglio.
Il Diritto all’Autodeterminazione, ultimamente adoperato da tanti popoli
ex-colonie, all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite – come accennavo
prima – consacra persino il ricorso alla forza. E’ bene chiarire in proposito,
a parte i soliti sillogismi giuridici, che è ufficialmente e giuridicamente
riconosciuta la “…guerra per legittima difesa come strumento per
l’ottenimento dei propri diritti perché essa è implicita
nello status di subordinazione imposta.”

La guerra come status – secondo la dottrina giuridica
internazionale – inizia già nel momento in cui si realizzano le
condizioni di anti-giuridicità dei rapporti. Normalmente – continua
la dottrina giuridica – chi resiste all’aggressione (come i Siciliani)
non muove guerra, ma agisce nella situazione di guerra già creata dall’avversario
incombente. Inoltre il Diritto Internazionale non pone alcun divieto di resistenza
alla violenza altrui, legittima o illegittima che questa sia.

Premesso che la Sicilia vive in uno stato di subordinazione
soprattutto psicologica che, oltretutto, comporta un grosso impegno sacrificale,
non solo sul piano economico e sostanziale, m a anche per le violazioni morali
e legali che subisce, ha ben ragione di chiedere di poter fruire di una legge
– sottoscritta e riconosciuta dall’Italia – per l’ottenimento
pacifico della propria AUTODETERMINAZIONE.

Vito Vinci, 25/02/2004