Giappone: gigante economico e nano politico

Sembra il soggetto di una pellicola americana di cui Hollywood detiene l’imprimatur: un kamikaze di ritorno nel cielo di Pearl Harbour. Immaginiamo la scena tra i flash di fotografi e telecamere: dopo 75 anni, un giapponese riattraversa la tolda della corazzata Arizona, la nave da guerra americana che è diventata oggi il sacrario degli oltre mille marines che vi trovarono la morte nel dicembre del 1941.

L’immagine politica è altamente simbolica: 75 anni dopo l’attacco a sorpresa dei kamikaze nipponici sul territorio americano, Shinzo Abe, il primo ministro giapponese, visitando il memoriale americano ha inteso rendere omaggio, insieme al presidente americano uscente Obama, alle vittime di entrambi gli schieramenti.

Da qualche tempo, del resto, le autorità giapponesi sembrano impegnate in un opera di riappacificazione storica per le vittime della seconda guerra mondiale, specialmente quelle del fronte del Pacifico, le vittime di entrambi gli schieramenti, come testimoniato dall’avallo dato da Tokyo, lo scorso aprile, alla visita del segretario di stato John Kerry al memoriale della Pace di Hiroshima.

Un’operazione a senso unico però, se si tiene conto che nessun alto dignitario giapponese abbia ancora sentito il dovere di recarsi in Cina, a Nanchino per esempio, dove milioni di civili erano stati massacrati nel 1937 dalle truppe di occupazione giapponese, né abbia ritenuto di dover far segno di ammenda nei confronti della Corea, dove la situazione, invece, appare ingarbugliata con la visita al santuario di Yasukuni (sacrario dei capi militari degli anni 30) dell’allora primo ministro Nakasone, interpretata dai coreani abitanti dell’ex colonia giapponese, come una effettiva dichiarazione di guerra fredda. La via della normalizzazione delle relazioni con i vicini asiatici, soprattutto in una regione segnata da tensioni geopolitiche complicate, come dimostra la vicenda delle isole Curili e dello stretto di Malacca, appare quindi difficile e piena di contraddizioni.

Fortunatamente, il Giappone ha sviluppato una strategia di normalizzazione ben differente nei confronti delle relazioni col resto del mondo, molto più pragmatica e diretta esclusivamente al raggiungimento della “leadership” dell’ economia capitalista mondiale. Obiettivo raggiunto e superato, se si considera che il Giappone è l’ideatore delle tecniche di management destinate a rendere più efficiente il processo di produzione industriale, come dimostra il successo mondiale della teoria Kaban, la regola dei 5 zero: zero stock, zero fallimenti, zero carta, zero ritardi e zero avarie.

Ma non si può delegare tutto all’economia e la strategia nipponica di inter-penetrazione “soft” nelle relazioni internazionali ha mostrato limiti evidenti che si possono far risalire ad un articolo della costituzione giapponese del 1946, l’art. 9, voluto espressamente dai vincitori americani, che sancisce testualmente la rinuncia perenne dell’uso della forza nella risoluzione dei conflitti internazionali.

Così il Giappone, gigante economico ma nano politico, ancora oggi dipende completamente dall’America per la sua difesa. Lo testimonia la base navale di Okinawa, che ospita il più grosso contingente di forze armate americane, 25 mila uomini dislocati al di fuori dai confini nazionali. Senza forze armate degne di questo nome e nonostante molteplici tentativi di riarmamento, il Giappone fatica a contrastare le velleità egemoniche di potenze come la Cina, ad esempio nel contenzioso aperto sulle isole Senjkaku, nel mar cinese orientale.

Perciò Shinzo Abe, che nel frattempo è riuscito ad ottenere per il Giappone l’organizzazione dei prossimi giochi olimpici del 2020, deve dimostrare di essere capace di disegnare un futuro per il suo paese, un futuro che passa, obbligatoriamente, da una nuova Costituzione giapponese riformata ed adattata alle esigenze del tempo che viviamo.

Eugenio Preta