L’Unione Mediterranea di Sarkozy, minaccia di isolamento per la Sicilia


La progettata Unione Mediterranea di Sarkozy, paradossalmente, costituisce un’ulteriore minaccia di isolamento per la Sicilia. E’ ora che politici, economisti, imprenditori, intellettuali della nostra terra, in una parola la “classe dirigente” (se ne abbiamo una) affrontino il problema, vitale per la nostra esistenza.

Infatti lo storico “scavalcamento” che le istituzioni statali italiane hanno fatto finora di ogni nostra prerogativa nel rappresentarci all’interno delle istituzioni europee, se appariva al limite accettabile nei rapporti con una realtà percepita come “lontana” (Bruxelles) diventa assurdo se dobbiamo essere “rappresentati” a casa nostra, nel Mediterraneo.

Cosa succederà in pratica? Che i paesi “forti” della sponda Nord del Mediterraneo (di cui facciamo parte solo nominalmente anche noi) si interfacceranno, si integreranno progressivamente con le economie, con le società dei paesi della sponda Sud. In questo creeranno rapporti diretti, infrastrutture, etc. che legheranno direttamente Parigi, Roma, Madrid, forse anche Lisbona, Milano ed Atene, alle grandi capitali del Sud: Il Cairo, Tunisi, Gerusalemme,…

Si badi che tutto ciò non ha molto a che vedere con l’integrazione “politica” europea, oggi oggetto di non pochi e giustificati ripensamenti. Si tratta, in fondo, di un’integrazione sociale ed economica, di fatto funzionalista, da guardare in modo molto più benevolo rispetto ai progetti di “superstato” europeo.

Ma dov’è la Sicilia in questo processo? Semplicemente non c’è! Né istituzionalmente, o politicamente, o economicamente o infrastrutturalmente. L’isola, sequestrata dal suo Mediterraneo è come “ibernata” al centro del Mar Glaciale Artico. Il Mediterraneo si avvia ad integrarsi “a ciambella” con un bel buco al suo centro che brilla per la sua assenza. E questa assenza è alla base politica per la mancanza di soggettualità politica propria della nostra isola (a dispetto di vaghe e vuote disposizioni della recente riforma del Titolo V che lascerebbero intendere che invece qualche manovra in tal senso sia possibile).

Per andare a parlare con i tunisini o con i libici dovremo passare da Roma, o addirittura dalla Malpensa!. Cioè saremo – in una parola – fuori dal Mediterraneo! Cioè fuori da casa nostra! Non ci riferiamo soltanto agli spostamenti logistici o agli snodi infrastrutturali, ma soprattutto ai centri decisionali. Se anche per caso (vedi metanodotti o reti di cablaggio) qualche infrastruttura dovesse passare da casa nostra per ovvi motivi geografici (la Sicilia E’ al centro del Mediterraneo) i relativi centri decisionali e finanche le manutenzioni sarebbero decise e/o fatte da fuori. Un po’ come la progettata “banca del mediterraneo” con sede a …Napoli o le produzioni di “Raimed” progressivamente centralizzate…a Roma!
Bisogna avere il coraggio di dirlo con chiarezza: la rappresentanza/mediazione italiana ci taglia fuori dal Mediterraneo, e questa volta per sempre o chissà per quanto tempo.

Se la Sicilia avesse soggettualità politica propria essa sarebbe sede naturale per tale tipo di pacifica integrazione. E infatti pare che non lo sarà. Il segretariato permanente che si andrà a costituire avrà sede a Malta (incredibile!) o a Tunisi.

Ma basta guardare una carta geografica qualunque del Mediterraneo per vedere che è la Sicilia il centro del Mediterraneo e non altri paesi e che in Sicilia, e in nessun altro posto, può aver luogo il baricentro di questa integrazione. Perché si cerca un “bersaglio” vicino al centro e si evita il centro stesso? Perché l’Italia non fa della Sicilia (che in teoria ne fa parte) la base per la propria politica di integrazione euromediterranea? E’ amaro rispondere, ma la realtà sembra proprio essere che l’Italia non considera la Sicilia pienamente Italia, ma solo “appartenente” all’Italia.

Se la sentisse Italia la candiderebbe immediatamente a questo ruolo. Non lo fa. E tutto ciò fa pendant con affermazioni leggermente, e involontariamente, offensive come quelle del premier secondo cui con il “ponte” diventeremmo “italiani al 100 %”, candida confessione di un’alterità percepita dallo stato italiano e della maggior parte della sua opinione pubblica nei confronti della propria più vasta regione.

Oggi Palermo, antica capitale della Sicilia, pur disponendo di un patrimonio culturale e umano di prim’ordine, e nonostante tutto di una certa “vivibilità” dovuta più all’attaccamento dei cittadini alla propria comunità che non ad una sciatta amministrazione comunale (almeno se confrontata ai drammi del napoletano e di altri grandi centri urbani del sud), sperimenta un vuoto di ruolo e un decadimento che ha pochi pari nel suo passato.

Palermo, naturale capitale della Sicilia e del Mediterraneo, oggi insidiata da altre città della stessa isola, pur esse in relativo declino, è l’unica che potrebbe “distribuire” i benefici di tale ubicazione a tutta l’isola senza mortificare i sentimenti di nessuno, anzi sviluppando diverse vocazioni nelle altre aree urbane della nostra terra che a questa principale resterebbero connesse. Mentre una scelta diversa (Siracusa? Catania? Mazara?) avrebbe il sapore di un definitivo declassamento quasi a carattere punitivo (chissà poi perché) della maggiore città siciliana, creando frustrazioni e lacerazioni poi difficilmente recuperabili.

Peraltro Palermo, e non altra città, è stata in passato teatro di uno dei più fecondi incontri tra le civiltà euromediterranee. Ci riferiamo ai fasti della corte normanna e sveva, il cui faro di luce si proietta ancora sull’attualità e su di un possibile futuro di convivenza. Perché no alla città di Federico II o dei Ruggeri e invece sì alla capitale tunisina o a uno “scoglio” in mezzo al mare come Malta che ha il solo merito di essersi “salvata” dal Risorgimento per mezzo della colonizzazione britannica? Il passato non torna ma può assumere valori simbolici elevati.

L’Unione Mediterranea potrebbe essere un’occasione unica per porre davvero (e non solo geograficamente) la Sicilia al centro del Mediterraneo e, con ciò, di avviare un percorso di riscatto della Sicilia da cui trarrebbe beneficio, nel medio termine, anche l’Italia meridionale e forse l’intero paese. Essa è forse l’ultimo treno per non avviare un percorso di sfaldamento dell’unità politica italiana che, viceversa, appare ineluttabile; e per di più a costo quasi nullo per le esauste finanze italiane. Essa sarebbe un modo per mettere finalmente in pace le legittime e secolari aspirazioni autonomistiche dei Siciliani, sancite nel loro ancora inapplicato Statuto, con una solidarietà, leale collaborazione, unità, con le istituzioni centrali italiane (ed europee) che potrebbe avviare solo un percorso virtuoso.

E invece non è così. E non si sentono grandi voci a sostegno di ciò né nella politica italiana (nemmeno da parte dei non pochi siciliani che in essa hanno ruoli di rilievo) né in quella siciliana. Ma non si vuol far torto a nessuno in particolare. Forse le emergenze meritano maggior attenzione. Ma di emergenza in emergenza si rischia di perdere di vista quelli che sono i nodi strategici per il nostro futuro.

La Sicilia pretenda, allora, in alternativa, due “sane” rivendicazioni: o di essere posta al centro delle istituzioni euromediterranee (con le ricadute infrastrutturali ed economiche che tutto ciò comporterà), o di partecipare con una “partenrship” separata a questo processo di integrazione, minacciando di saltare l’intermediazione italiana se questa si continuerà a rivelare “straniera in casa propria”. Quest’ultima potrebbe sembrare un’idea strana ma non sarebbe poi la prima volta che un paese non completamente sovrano partecipa autonomamente ad una istituzione internazionale (senza andare troppo lontano, la Bielorussia e l’Ucraina facevano parte dell’ONU anche ai tempi dell’Unione Sovietica come stati a sé).

La storia insegna che i periodi luminosi della Sicilia sono stati quelli, e solo quelli, in cui il Mediterraneo è stato al centro del mondo e libero di essere navigato. Quando è diventato un muro e la Sicilia si è trovata al “capolinea” del mondo è stata decadenza. Lasciare il “muro” intorno a noi quando tutto intorno sta cadendo sarebbe un suicidio, anzi un “genocidio” di cui non vorremmo che proprio il sistema politico italiano si rendesse responsabile.

Dalla sensibilità dei politici siciliani, ma soprattutto dell’opinione pubblica qualificata su questo tema, dipende gran parte del nostro futuro.

Massimo Costa
L’Altra Sicilia – Antudo

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