Forse non tutti sanno che…

ART. 36

Al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima. Sono però riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate dei tabacchi e del lotto.

«Questo articolo, senza enfasi, è il più importante dell’intero statuto, e infatti non funziona. Tutti i cittadini siciliani dovrebbero conoscerlo sin dalla scuola primaria. Cerchiamo di capirlo sino in fondo. Non c’è scritto che la Regione vive di trasferimenti dello Stato, né di entrate erariali disposte dallo Stato, né di tributi che lo Stato istituisce e poi le lascia manovrare “quasi” fossero tributi propri, come le addizionali. Nessuna entrata, tranne le poche di cui si dirà in articoli successivi, viene da Roma per effetto della Costituzione ma solo per effetto degli abusi costituzionali che si sono avuti nel tempo. Gridiamolo in faccia a quelli che dicono che l’Autonomia Siciliana è fatta di privilegi e di sprechi! Per quelli cercate in Trentino – Alto Adige o in Val d’Aosta…


La Regione si alimenta innanzitutto di entrate patrimoniali. Cosa sono? Sono tutte le entrate extratributarie che derivano dalla gestione del patrimonio. Si è visto che in Sicilia praticamente tutto il patrimonio dello Stato, anche quello indisponibile, e persino il demanio che patrimonio non è, passa sotto il controllo della Regione.

Ne consegue che tutti i benefici di natura patrimoniale, dalle royalties per l’estrazione di minerali e fonti d’energia, alle concessioni per l’utilizzo del suolo pubblico, ai fitti per immobili di proprietà pubblica e dati in locazione, ai dividendi per imprese a partecipazione regionale, costituiscono una prima voce d’entrata del bilancio regionale.

Questa previsione, però, non era necessario avesse rango costituzionale, e ciò per due motivi.

In primo luogo perché qualunque ente pubblico, anche minore, anche non territoriale, può avere entrate patrimoniali, cioè entrate assimilabili a quelle di un privato cittadino, senza che ciò necessiti di una tutela di rango costituzionale.

In secondo luogo perché in uno stato moderno le entrate patrimoniali, o di diritto privato, rappresentano un canale di finanziamento affatto secondario rispetto a quelle tributarie, o di diritto pubblico, a meno di non trovarsi a vivere su rendite tanto elevate (tipo gli Emirati Arabi o il Brunei) da non avere più bisogno di alcuna pressione tributaria.

La norma in parola, quindi, è inserita solo per “non escludere” le entrate patrimoniali in un articolo che, avendo natura sistematica, vuole prevedere TUTTI E SOLI i tipi di entrata della Regione, salvo norme speciali, quale quella del successivo art. 38, che dispongano altrimenti. Le entrate per trasferimento statale o per trasferimento del gettito di imposte e tasse erariali (cioè dello Stato) o per addizionali e imposte istituite dallo Stato, quindi, o non esistono o, visto che non sono né elencate né vietate dall’art. 36 che si premura di citare “persino” le entrate patrimoniali, devono essere del tutto marginali ed eccezionali.

Perché si volle questo?

Perché le tre forme di finanziamento che abbiamo sopra elencato (trasferimenti, imposte erariali, imposte “locali” disposte dal centro) creano dipendenza (economica, politica e psicologica) in chi le percepisce. Non solo: la logica che accomuna queste tre forme di finanziamento “incostituzionali” che di fatto hanno regolato e regolano la vita della Regione (e degli enti che da quella dipendono) trasformando la Regione in un mero “ente di erogazione” non hanno responsabilizzato la classe dirigente sulle politiche di sviluppo. In altre parole il “politico” non ha molto interesse ad ampliare la base produttiva o a razionalizzare la spesa, poiché non può manovrare l’entrata ma ha solo da ripartire una spesa: fatale che la utilizzi per spartirla in modo clientelare. Che è ciò che a Roma tutti vogliono perché, così facendo:

  • fallisce l’istituto autonomistico;
  • l’economia siciliana resta subalterna e dipendente da quella della Penisola;
  • la rappresentanza politica dell’isola resta “incatenata” agli ascari che erogano i finanziamenti suddetti senza reale possibilità di alternativa o di ricambio.

Chi ha voluto NON APPLICARE l’Art. 36 sapeva benissimo ciò che stava facendo, perché dall’applicazione di questo articolo nasce quell’indipendenza economica che può far rimettere in discussione i rapporti strutturali di colonialismo che oggi incatenano la Sicilia.

Ma veniamo alla seconda parte del primo comma, la più importante: ”

…a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima”.

Che sono questi tributi?

Semplicemente prelievi istituiti con legge regionale COME SE la Sicilia fosse un ente sovrano. In altre parole, in materia tributaria la Sicilia (diciamolo alla UE) E’ UNO STATO SOVRANO, ha la soggettualità tributaria attiva, la potestà tributaria, non derivata o concessa dallo Stato, bensì originaria.

Nel proprio territorio e sulla propria popolazione, al pari di qualunque stato sovrano, può decidere se e quali tributi istituire, come accertarli, etc. Certo, nell’istituirli non può disapplicare i principi costituzionali della Repubblica Italiana, né le Direttive e i Regolamenti Comunitari, ma questi obblighi, per l’ARS, sono cogenti né più né meno di quanto non lo siano per il Parlamento Italiano.

Le politiche tributarie della Regione Siciliana, in quanto costituzionali e sovrane, non sono quindi “aiuti di stato”, come vuole l’esecutivo fazioso di Bruxelles, spalleggiato silenziosamente ed ipocritamente dagli esecutivi di Roma, ma sono politiche tributarie di uno stato autonomo, né più né meno legittime di quelle dell’Irlanda o di Malta!

Con i tributi propri la Regione deve alimentarsi, non con i tributi erariali riscossi in Sicilia! Questa differenza rispetto alla condizione odierna è abissale. La Regione deve programmare le proprie spese, i propri servizi ai cittadini, i propri organici, i propri programmi di sviluppo sulle “proprie risorse” e sul sacrificio che la società e l’economia siciliana sono disposte a sopportare. Solo così si potrà creare vero sviluppo e non assistenzialismo.

A questo punto sorge un problema: ma i tributi erariali, visto che lo stato, nelle sue leggi, non dispone la “non applicazione” al territorio siciliano, si applicano o no?

Il secondo comma dell’articolo in tal senso è chiaro: solo le entrate da giochi e scommesse (interpretazione analogica estensiva rispetto al solo “lotto” previsto), i tabacchi e le imposte di produzione, sono a beneficio dello Stato.

Queste imposte sono il vero tributo, e l’unico tributo, che i Siciliani devono pagare per i servizi che lo Stato italiano le rende (e che servizi!): fuori dal territorio la rappresentanza diplomatica e consolare e la difesa, dentro il territorio alcuni servizi, sebbene amministrativamente delegati alla Regione ma pur sempre di competenza statale, quali l’ordine pubblico e la giustizia, e poco altro.

Fuori da queste entrate gli altri tributi erariali, e con essi il grosso dell’attuale finanza pubblica, sono completamente illegittimi e incostituzionali: l’Irpef, l’Ires, l’Iva, tanto per limitarci ai maggiori tributi, ma anche il Canone Rai, SONO FURTI ai danni dei Siciliani, in quanto non previsti dall’Art.36!

Ma… ma la solita Corte costituzionale (che non ha competenze in Sicilia) dice che i tributi erariali si applicano dappertutto se così delibera il Parlamento nazionale. Alla faccia del nostro art. 36! E i “tributi propri”? Sì, è vero, potremmo istituirli, ma solo “aggiuntivi”…cioè economicamente non sopportabili, giuridicamente mostruosi in quanto configurerebbero una doppia imposizione e comunque invisi, tanto che ogni volta che la Sicilia ha ingenuamente provato a istituirli è stata bacchettata di brutto, a Roma e a Bruxelles, nell’ignoranza e nell’acquiescenza generale da parte del Popolo Siciliano.

La Sicilia dovrebbe decidere che tipo di tributi istituire, da quelli importantissimi (sul reddito, sui patrimoni) fino alle più minute tasse e contributi (universitarie, concessioni governative, bollo) e non un centesimo di queste dovrebbe varcare lo stretto. Alcune imposte, come l’IVA, non sarebbero completamente libere nella legislazione perché dovremmo tenere conto della legislazione comunitaria, ma nessuno ci imporrebbe di tenere il vessatorio 20 %, istituito per il dissesto delle finanze italiane, mentre le transazioni tra Sicilia e resto d’Italia si assimilerebbero a quelle che oggi sono le compravendite “intracomunitarie” (cioè tra paesi appartenenti all’Unione, tassate unicamente nel paese di destinazione, dove si compie il consumo, e non in quello di partenza, come avviene oggi per le merci italiane, tantissime, “esportate” in Sicilia).

C’è da dire, purtroppo, che la riserva allo Stato delle imposte di produzione non ci aiuterebbe con il costo sproporzionato delle accise sugli idrocarburi. Statuto alla mano, le imposte sulla benzina resterebbero allo Stato. Dato, però, che i servizi statali residuali resi alla Sicilia costano molto, ma molto, di meno del “maltolto” sugli idrocarburi, un Governo regionale responsabile potrebbe negoziare con Roma non l’eliminazione di queste accise (l’Italia cadrebbe nel baratro e non ce lo concederebbero mai, tanto più che su queste non abbiamo neanche tutela statutaria) ma una loro sensibile riduzione e compartecipazione della Regione e degli enti locali interessati.

Quali i benefici dell’applicazione dell’Art. 36? Incalcolabili!

La fiscalità di vantaggio attirerebbe investimenti da ogni parte del mondo e farebbe ritornare i nostri emigrati. Le tassazioni di favore per redditi che in Sicilia ad oggi non esistono o quasi (come i redditi di capitale) attirerebbero capitali ed investimenti praticamente senza nessun costo per l’erario. La responsabilizzazione della classe politica sulle entrate si trasferirebbe prima o poi anche sulle spese che verrebbero razionalizzate. La sensibilizzazione dei cittadini nei confronti del nuovo soggetto impositore (regionale) creerebbero nuove aspettative nei confronti di un amministratore che oggi invece si “nasconde” dietro il paravento delle politiche finanziarie nazionali.

L’unico problema potrebbe essere quello della “sostenibilità” di questa devoluzione nel breve periodo (nel medio e lungo non c’è dubbio che l’ampliamento della base produttiva risolverebbe alla radice ogni problema).

Il punto è che le “spese” dell’ente pubblico in Sicilia oggi sono fuori controllo. Una razionalizzazione e dimagrimento degli organici, anche graduale, insostenibile in regime di finanza derivata, sarebbe soltanto salutare in regime di finanza autonoma, perché trasformerebbe la Sicilia da terra di pensionati e mantenuti a terra di lavoratori ed imprenditori. Ma c’è qualcuno a cui questo non piace. E poi, al di là delle spese, le entrate sono solo in parte di natura fiscale. Uno stato sovrano ha anche entrate dall’emissione di moneta e dall’indebitamento (ideale per gli sfasamenti temporanei tra flussi in entrata e in uscita). Ma a questi canali sono dedicati altri articoli del nostro poco conosciuto Statuto e di cui si dirà appresso.»

Massimo Costa