Impariamo dal popolo sardo

Dopo aver rilanciato Chrysler con i soldi italiani, il furbo Marchionne persevera nella sua convinzione di dover dismettere gli impianti Fiat di Termini Imerese dimostrando di non avere minimamente a cuore le sorti di un territorio e di un popolo che ancora non vuole svegliarsi dal letargo dell’assistenzialismo e ancora si fida del Berlusconi di Scajola o di Sacconi.

Mentre Marchionne si impone negli USA, ma incassa in Italia gli incentivi per fare cassa, Termini viene sacrificato per la legge del mercato: chiude perché Marchionne dice che non è competitivo, alla faccia del decantato (quando si deve incassare) polo industriale siciliano, dell’importanza dell’indotto dell’auto, degli investimenti ricevuti dal governo per realizzare quegli impianti.

Invece di rendere competitivo lo stabilimento, ora che è dimostrata la necessità di dover incrementare la produzione auto nazionale, e che Fiat incassa incentivi pubblici, paradossalmente si chiede l’intervento di cinesi o indiani, che chissà se verranno, per salvare un sito industriale costruito con i soldi dei contribuenti italiani e siciliani per fabbricare auto nazionali.

Così mentre i siciliani perdono tempo a discutere con sindacati e governo, rimandando di giorno in giorno ogni presa di decisione, (se i siciliani si accontentano di essere presi per… il naso) un popolo vero è impegnato per la salvaguardia reale della sua occupazione nel Sulcis.
I sardi, loro, non scioperano vergognosamente astenendosi dai turni come fanno i siciliani davanti a fabbriche abbandonate per qualche ora, loro occupano la piazza romana del Parlamento, gridano ai media, non si fanno incantare dai sindacati che hanno già firmato l’accordo per dismettere Termini Imerese.

Loro, i sardi, non saltano qualche ora di lavoro, restano in piazza e soprattutto hanno la dignità di sventolare il loro orgoglio, hanno la fierezza dell’appartenenza e sventolano le loro insegne, la loro bandiera.

Loro combattono seriamente per un futuro di occupazione, per la salvaguardia del loro posto di lavoro, non fanno accattonaggio, la loro battaglia ha i connotati dell’orgoglio e dell’appartenenza ad un demos, quello sardo , dignitoso sempre e sempre fiero di esistere come identità popolare. Hanno loro, i sardi, il coraggio di professarsi diversi sventolando il drappo con i 4 mori bendati, il coraggio di manifestare la loro appartenenza attraverso il simbolo della bandiera.
Un popolo che chiede giustizia per la chiusura di uno stabilimento che significa lavoro e futuro, invece non è capace di issare il suo vessillo non a Roma, ma neanche nella piana di Termini Imerese, a casa propria, per richiamarsi ad un orgoglio che pur esisteva, un tempo.

Menati per il naso da sindacalisti prezzolati che hanno già svenduto il loro futuro, tirati per le orecchie da un governo nordista che ha già deciso di assecondare Marchionne, i siciliani protestano quasi in sordina, con vergogna, figli di un dio minore, senza mai avere il coraggio di trincerarsi dietro un simbolo, un vessillo che pure esiste, la bandiera giallorossa del Vespro, la bandiera dello statuto violentato e vilipeso, la Trinacria dell’identità e dell’orgoglio che non esiste più al di qua del faro.

Mentre i 4 mori bendati sventolano e trascinano le rivendicazioni legittime di un popolo fiero dell’appartenenza, la Trinacria resta ripiegata nei cassetti, metafora ormai di un popolo che non esiste perché ha delegato ad altri il suo destino, sconfessando il suo orgoglio e la sua identità.

Ufficio Stampa
L’Altra Sicilia