L’opinione del magistrato

Non possiamo più vivere di tradimenti. Dalla farsa del plebiscito alla beffa dell’autonomia

La storia del Popolo Siciliano dal 1860 ad oggi si può definire sinteticameme come la storia degli “Illusi”.

Ritengo di non peccare di presunzione e di spavalderia, perché è la verità, se aggiungo che anche Siciliani d’ingegno, di elevata cultura e d’intendimenti onesti, in perfetta buona fede, si sono fatti travolgere dalla delirante illusione che va sotto il nome di “Unità d’Italia”.

Per i nostri avi tale “Unità” doveva costituire la panacea di tutti i mali. L’unità fa la forza, si disse, specie quando ciò si realizza tra “fratelli”. D’altra parte i “fratelli piemontesi” non si presentavano al canto di “Fratelli d’Italia”?

E così i conquistatori calati dal Nord, guidati dal fascinoso Garibaldi, capitano di ventura dell’era moderna, trovarono le porte spalancate e tra gli evviva e gli osanna iniziarono la loro gloriosa leggendaria conquista.

L’esercito borbonico, che a detta di tutti gli storici, era il più efficiente ed organizzato tra tutti quelli esistenti nella penisola italiana, si squagliò come neve al sole dinanzi alle disorganizzate e male equipaggiate bande garibaldine a causa dei vergognosi tradimenti dei suoi fedifraghi comandanti (v. per tutti AlianelloLa conquista del Sud).

All’epopea “garibaldina” non poteva che seguire, come logica conclusione. la farsa del plebiscito e così i Siciliani si ritrovarono definitivamente ed incondizionatamente tra le grinfie degli avidi “fratelli” liberal-savoiardi, indebitati sino ai capelli a causa delle loro continue avventure di guerra.

Da allora ebbe inizio la spoliazione della Sicilia operata dagli acquisiti “fratelli” del nord i quali in nome di questa pretesa fratellanza misero in comune con noi, che non ne avevamo, i loro debiti, noi mettemmo in comune le nostre ricchezze con loro, che non ne avevano, in cambio ci trasferirono fraternamente tutta la loro legislazione chiaramente estranea e contraria ai nostri interessi e al nostro modo di vedere e di sentire e così i “fratelli” liberatori si arricchirono ed i fratelli liberati fecero la stessa fine di Esaù che per un piatto di lenticchie perdette la primogenitura.

In quell’epoca la spoliazione più eclatante si ebbe con l’incameramento dei beni ecclesiastici di valore pari a milioni di euro di oggi. Non essendo possibile trasportare via i conventi e le terre il fratello Piemonte si comportò da vero conquistatore quale era : vendette ai Siciliani le loro stesse terre ed i loro stessi beni, prosciugò così le tasche dei nostri antenati di tutto il denaro liquido possibile, che andò a finire nelle fondamenta di ciò che oggi si chiama “il triangolo industriale del Nord”. L’ulteriore e residuo prosciugamento venne operato con le esose, vessatorie ed odiate tasse sui consumi, sugli animali, sul macinato ed altro corrispondenti alle moderne IVA, ILOR, IRPEF, ricevute fiscali, registratori, bolle, tasse sugli scarichi fognari ed altre diavolerie studiate per far quattrini ai danni di chi opera e vuol produrre.

I Siciliani, però, non si rassegnarono facilmente a tale dispotismo ed a tali spoliazioni ed opposero una continua resistenza culminata nell’eroica rivolta di Palermo e di altri centri del 1866, che avendo avuto carattere dichiaratamente separatista viene contrabbandata dagli storici del regime come una sommossa di scalmanati, di approfittatori e, come al solito, anche di banditi.

Tale rivolta, scaturita come giusta reazione alla “mala signoria degli italiani” ovviamente venne soffocata nel sangue dai bombardamenti delle soverchianti truppe di occupazione del beneamato “Re Galantuomo e Padre della Patria”.

Naturalmente, come di consueto, si è fatto di tutto per non fare conoscere ed in ogni caso per svilire tale gloriosa sommossa di cui i Siciliani, invece, devono ritenersi fieri ed orgogliosi (v. in proposito Attanasio: Gli occhiali di Cavour).

I Siciliani sconfitti ed attanagliati dal regime liberal-savoiardo, che li ridusse alla fame, si illusero di poter risolvere i loro problemi di sopravvivenza organizzandosi nei gloriosi Fasci Siciliani dei Lavoratori. Ma, purtroppo, sotto qualsiasi regime italiano ai Siciliani non è consentito alcun rinnovamento ed alcuna rinascita. Francesco Crispi, capostipite di quella genia di ascari e di rinnegati, tuttora in Sicilia molto rigogliosa e fiorente, represse nel sangue e con il carcere duro e spietato le giuste istanze di rinnovamento avanzate dai suoi conterranei. I degni seguaci di cotanto losco personaggio, che merita a pieno titolo di essere collocato tra i primi posti nella galleria dei figli indegni di questa terra di Sicilia, vi hanno innalzato monumenti e mezzi busti ed hanno intitolato Piazze e Vie al suo nefando nome. Ai difensori dei diritti dei Siciliani viene riservato, invece, l’oblio più assoluto.

Di fronte a tale negativa esperienza svanita come tutte le illusioni, ai Siciliani non restò altro scampo che la fuga. Per la prima volta nella loro storia millenaria gli isolani iniziarono la loro lunga peregrinazione per il Mondo, divenendo emigranti. All’estero i Governi stranieri consentirono ai Siciliani di estrinsecare tutte le loro capacità produttive. Il Governo dei “fratelli” conquistatori non permise ai Siciliani di lavorare e produrre nella loro stessa Terra.

Come ogni porco ha il suo San Martino, anche il governo liberal-savoiardo ebbe il suo, indebolito dalle guerre inutili, da miserie e da violenze di ogni genere. Il colpo di grazia glielo diede la scure del fascio littorio. I Siciliani per la verità non si fidarono tanto di questi macellai vestiti tetramente di nero ed aventi come contrassegno le tibie e il teschio, simbolo della morte.

La monarchia savoiarda divenuta una marionetta in mano al Duce si ridusse a collezionare corone che il fascismo riusciva a rapinare dalle teste dei regnanti dell’Albania e dell’Impero Etiopico.

Ben presto il fascismo venne travolto dalle grandi potenze a causa della sua megalomania e della sua sfrontata e petulante arroganza. Il crollo del fascismo travolse anche la fatiscente Casa Savoiarda.

Al tramonto del fascismo finalmente i Siciliani rompono l’incantesimo ibrido e nebuloso dell’ «Unità» innaturale con popoli estranei alla nostra cultura ed alla nostra millenaria civiltà mediterranea, prendono coscienza dei tradimenti patiti e delle illusioni in cui erano incappati e reclamano a gran voce L’INDIPENDENZA. Dal 1943 al 1946 la Sicilia visse forse gli anni più speranzosi della sua lunga storia e fu ad un passo dalla sua definitiva libertà dal servaggio coloniale in cui nel 1860 era caduta.

Tutta la realtà sociale Siciliana partecipò attivamente a questa magnifica ed esaltante lotta per L’INDIPENDENZA. Liberi professionisti, imprenditori, commercianti, artigiani, contadini, operai, studenti ed anche baroni e latifondisti (in verità molto pochi) si organizzarono nel MOVIMENTO per L’INDIPENDENZA della SICILIA, fondato e capeggiato dall’indimenticabile Andrea Finocchiaro Aprile e per la prima volta nella storia unitaria riuscirono a lottare ed a vincere, costringendo l’Italia ad abbassare la testa ed a sottoscrivere un armistizio, che porta il nome di Statuto Autonomistico, equivalente nella forma e nella sostanza ad una mezza indipendenza. I buoni ed onesti Siciliani che non dimenticano e che vissero quelle gloriose giornate sono i testimoni più veri e genuini di quanto sopra sommariamente esposto. Solo i traditori, i rinnegati ed i venduti alle ideologie estranee alla coscienza del vero popolo Siciliano possono lanciare accuse e discreditare, come è costume della prosperosa categoria degli ascari, quella lotta popolare per l’indipendenza.

Alla luce delle superiori sommarie considerazioni è inspiegabile come mai un apprezzato, onesto ed acuto studioso di storia contemporanea, vanto dell’Ateneo Palermitano, quale è il Marino, abbia potuto sostenere nella sua storia del separatismo Siciliano che la lotta indipendentista di quell’epoca è consistita “in trame baronali, in tresche con i briganti, in febbri di virtù baronali, in battaglie reazionarie condotte da fascisti pentiti, da opportunisti spregiudicati, da mafiosi e da notabili del blocco agrario” sconfitti alla fine da un fantomatico e non meglio identificabile “risorgimento contadino (addirittura!) inquadrato nella strategia meridionalista delle lotte nazional-popolari“. Tale tesi è quanto meno fantasiosa ed amena come le storie dei “pupi siciliani” emblematicamente stampati nella copertina del libro anzidetto.

Sta di fatto che le fantasiose “lotte nazional-popolari” appunto perché inconsistenti, illusorie ed in ogni caso demagogiche non portarono alcun risorgimento né nel mondo contadino né nel mondo delle altre realtà sociali isolane. La verità è, invece, che i Siciliani vennero ancora una volta abbagliati ed illusi dal conquistato Statuto Autonomistico, scambiando l’armistizio con l’Italia come un definitivo trattato di pace. Le conseguenze furono disastrose e sono sotto gli occhi di tutti. Lo Statuto rimase scritto solo sulla carta, presero piede gli intrighi, gli intrallazzi, le corruzioni, le speculazioni illecite, il clientelismo politico sfrontato; gli scandali; la mafia da organizzazione contadina si trasformò rigogliosamente in organizzazione industriale, gestendo l’industria del crimine a tutti i livelli e su questa scia potremmo continuare all’infinito.

Gli errori, purtroppo, si pagano caramente ed i Siciliani onesti li pagarono e continuano a pagarli subendo i malanni anzidetti e con la fuga dalla Sicilia. I soliti “fratelli” italiani appoggiati dagli ascari locali additarono ai contadini, agli operai agli artigiani Siciliani la solita via dell’emigrazione per potere sopravvivere e questa volta molto generosamente aprirono a noi isolani anche le porte del loro “triangolo industriale del Nord”.

È notorio che l’emigrazione siciliana in questo dopoguerra raggiunse proporzioni bibliche mai verificatesi.

Le rimesse degli emigranti di valuta pregiata pari a cifre astronomiche sono servite a stagnare il solito calderone nazionale perennemente sfondato anzicché rimanere in Sicilia per come prescrive l’art. 40 dello Statuto e ciò per suprema volonta dei soliti “fratelli” appoggiati dai soliti ascari.

E i Siciliani continuano a rimanere gente da Terzo Mondo. (…)

Dobbiamo ancora vivere di speranza e di illusioni?

Usciamo dall’incantesimo, spogliamoci delle illusioni di cui sin’oggi siamo rimasti prigionieri riappropriamoci del posto che ci hanno rubato e che ci spetta tra le libere nazioni del mondo. Altrimenti, chissà quali altre avventure ci attendono!

Salvatore Riggio Scaduto*

* già Magistrato a Caltanissetta, apprezzato
per il suo autentico Sicilianismo, è un impegnato studioso di storia e di etnologia.