Su Salvatore Giuliano e Portella della Ginestra

Palermo, 14 Dicembre 2004

Pochi giorni fa qualcuno ha violato la tomba di Salvatore Giuliano a Montelepre portando via il registro delle firme e la bandiera dell’EVIS, sostituendo quest’ultima con la corona depositata in onore dei “Caduti di Nassiriya”.

A parte il generale sconcerto per un’azione quale quella di violare un sepolcro, di chiunque esso sia, si ha l’impressione che il “brigante” (così dipinto dalla storiografia ufficiale) Giuliano faccia paura o sia capace di evocare emozioni ancora da morto, forse ancor più per ciò che rappresentò che non per ciò che fu realmente nella sua breve vita.

Il macabro gesto, però, ci dà l’occasione per tornare su una vexata quaestio sulla quale non è stata fatta ancora sufficiente chiarezza:
cosa fu realmente la strage di Portella della Ginestra? chi la volle? chi fu a sparare? perché Giuliano ne fu considerato l’autore in circostanze così oscure? a chi fece comodo questa verità? ma, soprattutto, a chi appartiene Portella della Ginestra come luogo della memoria?

A queste domande si tenterà di dare una risposta chiara e fuori dal coro.

La verità ufficiale la conosciamo, sancita dal frettoloso processo di Viterbo, e ancor più dal tribunale cinematografico di un celeberrimo film: Giuliano fece quella strage per disperdere “la canèa rossa”, di sua iniziativa o sotto istigazione di interessi oscuri, accomunati da un disegno reazionario e con lo “zampino” dei separatisti (poco importa se al momento della strage Giuliano non era più colonnello dell’EVIS da molto tempo e si era avvicinato ad altre sponde politiche; l’importante è che la verità da costruire sia stata quella).

In realtà già il film lasciava intendere qualcosa con l’omicidio di Giuliano e di Pisciotta su inconfessabili rapporti dei due con il potere costituito. Ma anche lì il “depistaggio” non era minore: non era più quello di “destra”, volto a disegnare un Giuliano carnefice che faceva da sé, ma era ora quello di “sinistra”, volto a dipingere un Giuliano burattino e vittima di una coalizione di democristiani, liberali, monarchici, separatisti e, in sostanza, del “blocco dei latifondisti” che voleva impedire qualunque progetto di riforma sociale.

Rispetto a questa verità ufficiale bisogna riconoscere che una prima luce sia venuta ad opera dello storico Casarrubea.

Pur essendo questi, infatti, interno a quella cultura nazionale di sinistra che aveva dato l’interpretazione di cui sopra, egli ha cominciato a scavare in quel passato per scoprire finalmente qualcosa della verità.

Nella sostanza ci dice che “Portella” (diciamo così in breve) fu la prima strage di stato della Repubblica Italiana, fatta per intimidire le rivendicazioni contadine e ci dice che non è nemmeno certo che l’esecuzione sia materialmente del tutto imputabile a Giuliano. Quest’ultimo, ormai in preda dei partiti di destra isolani (monarchici e liberal-qualunquisti, ma non senza qualche aderenza democristiana), sotto il miraggio di una “fuga dorata” negli USA, si sarebbe sì prestato ad un’azione dimostrativa, ma, al momento del dunque, sarebbe stato affiancato da manipoli di mafiosi che, fuori dai suoi ordini e su una linea di fuoco più bassa, avrebbero sparato ad altezza d’uomo, per poi poter scaricare tutto su di lui come capro espiatorio.

L’interpretazione di Casarrubea merita rispetto almeno per due motivi: intanto perché, figlio di una vittima di “Portella”, ha una motivazione personale fortissima nella ricerca della verità, e poi perché ha pagato di persona la sua ricerca con un procedimento penale per calunnia nei confronti degli “insabbiatori”, da cui è uscito indenne solo da poco.

Tuttavia ci sono ancora alcuni punti oscuri per i quali la ricostruzione di Casarrubea non ci convince del tutto e sono, forse, dovuti inconsciamente alla sua stessa estrazione politica e culturale.

Intanto, in tutto ciò, non si dice nulla (dando per buone le responsabilità delle forze politiche italiane di centro-destra da lui evocate) sulle “corresponsabilita” cinquantennali delle forze politiche italiane di centro-sinistra nel mantenere quel silenzio.

Se strage di stato fu, fu tale con la complicità di tutti. Un po’ per realismo politico in un’epoca quale quella della guerra fredda, un po’ perché il mito dei separatisti “brutti e cattivi” faceva comodo a tutti, la sinistra di allora tacque e quella dei decenni successivi si limitò a lanciare sospetti senza voler mai andare a fondo del problema, perché andare fino in fondo poteva voler dire la scoperta di verità imbarazzanti.

Su di un punto però la verità della sinistra non poteva recedere: il responsabile della strage doveva essere Giuliano.

Toccare quella verità avrebbe significato aprire un vaso di Pandora troppo pericoloso. Bisognava ricordare che, all’epoca della strage, il separatismo armato non esisteva più da un pezzo (da più di un anno almeno), che le ultime simpatie separatiste di Giuliano (che davvero nell’ultimo tempo fu ostaggio di repubblichini, monarchici e “liberali”, cioè notabili latifondisti) furono per l’ala sinistra del movimento, quella che faceva capo a Varvaro, poi confluito nel PCI. Ma Varvaro aveva sempre rifiutato la lotta armata, e la sua uscita dal MIS fu motivata proprio da questo; ma Varvaro restò sempre in cuor suo un indipendentista (basti leggere la sua commemorazione all’ARS di Finocchiaro Aprile). Insomma, bastava fare due più due per veder crollare il teorema della strage separatista. Ma ai comunisti italiani questo non interessava; era meglio lanciare il messaggio obliquo senza andare oltre: “democristiani e separatisti? tutti una cosa contro il popolo siciliano”.

Ebbene, Casarrubea non si libera del tutto da questo pregiudizio e le sue pagine sul separatismo appaiono frettolose e preconcette; preconcette al punto che liquida come “marginali” le ali democratiche, legalitarie e di sinistra del separatismo medesimo, senza avvedersi che se erano tali lo erano non meno anche all’interno del fronte dei partiti autonomisti o centralisti.

In secondo luogo, per Casarrubea Giuliano resta essenzialmente un criminale, più o meno comune. Non si vuole qui sottoscrivere la validità del terrorismo e della lotta armata che, a nostro parere, furono una risposta tragicamente errata alle violenze del governo centrale contro le sedi e gli esponenti del MIS. Tuttavia, su di un periodo convulso e complesso come quello della Sicilia del 1943-1947 non è bene dare giudizi sbrigativi e moralistici.

A differenza di altri veri briganti, Giuliano appare come un personaggio dalle molteplici luci, non tutte negative. Ci fu in lui, nella misura in cui poteva esserci in un figlio del popolo, una genuina aspirazione ad una lotta partigiana nella quale credeva; divenne, magari a dispetto della sua stessa volontà, un mito vivente nella fantasia popolare, una sorta di “Sandokan” o di “Robin Hood”.

E di questo uno storico dovrebbe dare ragione, non limitarsi come un magistrato alla condanna formale dei reati. La sua fu una lotta non meno entusiastica di quella dei partigiani di Canepa, forse solo un po’ meno colta, e fu anche per quella lotta se l’Italia “colonialista” decise di fare qualche passo indietro rispetto all’annessionismo puro e semplice e concederci quell’Autonomia che, in linea di principio, non va mai dimenticato, è sempre un potente strumento di democrazia e di sviluppo. In ogni caso, a prescindere dalla sua stagione come colonnello dell’EVIS, su “Portella” le ombre sono talmente tante che più la verità ufficiale ce lo disegna come il responsabile, meno ce ne convinciamo e pensiamo che la sua memoria sia stata infangata di un crimine che altri hanno commesso e possiamo immaginare bene chi, essendo i “discendenti” politici di quella élite ancora saldamente al potere in Sicilia.

Quindi è chiaro che a “Portella” furono uccisi i contadini siciliani che chiedevano la terra, i figli del Popolo Siciliano, ingannati forse persino da quei sindacati e quei partiti che dicevano di rappresentarli.

Ma è anche chiaro che a “Portella” fu uccisa anche la verità storica, fu uccisa la dignità del Popolo Siciliano e della causa sicilianista, per mezzo del sacrificio di una banda ormai abbandonata da tutti e su cui era agevole scagliare ogni responsabilità.

Ed è proprio su questo che oggi si deve tornare.
Portella era il luogo del “Sasso di Barbato”, era ed è uno dei luoghi della memoria dei Fasci Siciliani. La sinistra nazionale italiana si è appropriata di quella memoria, ma i Fasci furono un’esperienza totalmente siciliana: il primo grido di libertà, dopo la rivolta del “Sette e Mezzo” del 1865, lanciato dai figli ultimi del Popolo Siciliano, sconfessati persino dai socialisti italiani e massacrati dal traditore di turno, quel Francesco Crispi, al quale indegnamente sono dedicate strade e statue nella distratta, smemorata e provinciale Sicilia di oggi.
Peraltro oggi “Portella” giace nell’abbandono e nello squallore: è diventata quasi un parcheggio di auto o qualcosa del genere. “Portella” invece è “nostra”!

E per i Fasci della fine dell’Ottocento e per la strage del 1947! Lo ripetiamo: strage di stato italiana contro il popolo siciliano non meno di quella del pane del 1944 a Palermo; e lasciamo in pace, per favore, la memoria di Salvatore Giuliano.

Riempiamola quindi di bandiere siciliane e facciamola rivivere nella nostra memoria per onorare quei nostri antenati che, come ancora oggi facciamo noi, lottarono per la nostra libertà e per una maggiore giustizia sociale.

L’Altra Sicilia – Palermo