L’insopportabilità del collettivo

Nei grandi momenti di esaltazione collettiva, determinata principalmente da avvenimenti sportivi o grandi concerti rock, sono in tanti a buttarsi a capofitto nella follia dell’evento, mentre altri si sentono spaesati, quasi inopportuni perché stentano a ritrovarsi in quello stato di euforia festaiola scegliendo di rimanere soli con se stessi.

Nei registri professionali, nel vivere ordinato per sistemi, il collettivo è avvertito come un’esigenza ed è diventato una specie di nuovo dogma tecnico che condanna senza attenuanti chi non si presta a quella che tanti ritengono, però, una insopportabile mediocrità. Nelle more di questa nuova società “happy hour”, ‘festivaliera’ e, forse,  spensierata, per molti, invece, la solitudine è percepita come una vera opportunità, altro che ostacolo alla socializzazione. Doversi occupare solo di se stessi infatti è notevolmente più facile che fondersi in un plurale che spesso porta malesseri e perdita di tempo.

Se poi prendiamo in considerazione le derive, che le frenesie collettive hanno portato sempre come inevitabile conseguenza, notiamo una sorta di vergogna o di indecenza quando si parteggia per qualcuno a dispetto di qualcun altro, sotto la spinta della massa. Una specie di “atarassia” o di liberazione personale come se uno sconosciuto venisse a sconvolgere quello che quotidianamente e a livello familiare prima ci rassicurava.

Come non accorgersi delle inquietanti conseguenze che una massa, anche se armata di buone intenzioni e di buona volontà, libera ma prevedibile, può trasformarsi in una folla imprevedibile, disordinate e violenta? Come non preoccuparsi quando i peggiori si infiltrano nei gruppi più pacifici e come se ci fosse una legge superiore della massa che li obblighi a perdersi, li convinca a degradarsi, insofferenti e ribelli, ai divieti divenuti imposizioni intollerabili che autorizzano la contestazione, con l’impressione di un’euforia artificiale e sproporzionata, che ha perso ogni sua sincerità e cerca di convincersi di essere nel giusto.

In ambito politico ci sono ragioni profonde che militano per la passione delle grandi adunate, delle manifestazioni dove non esiste l’imperativo dell’individualità, dell’obbligo di differenziarsi, e così sembra più opportuno venire assorbiti dalla massa pur se manipolata e creatrice solo di calcoli statistici. Non si è rivoluzionari, come non si è stati fascisti o comunisti, senza professare questa spiccata preferenza per il collettivo.

Riconoscere che non si sopporta il collettivo, serve solo a squalificare, a mettere in cattiva luce, ti fa additare come un diverso, un qualcuno che fa parte a sé, bollato definitivamente come un essere asociale incapace di solidarietà, reietto, a vantaggio di chi urla sempre in compagnia, piuttosto di chi è ancora capace di rallegrarsi o intristirsi da solo.

Spesso, in concomitanza di avvenimenti importanti per un Paese, il Potere programma grandi eventi sportivi o adunate festivaliere, probabilmente per distrarre l’attenzione e portare le masse all’euforia incosciente del tifo di parte, sicuramente un indubbio motivo di fraternizzazione in una comunità nazionale. Peccato soltanto che il Potere non sia capace di offrici altre occasioni, ben più importanti per un autentico momento di riunione e analisi.

I collettivi autoproclamatisi, hanno sempre causato molti danni: come i dittatori che riescono a trasformare cittadini liberi in collettivi turbolenti ed ai loro ordini, alla fine soltanto maltrattando e schiavizzando il loro popolo.

Eugenio Preta