North Sentinel, l’isola che resiste al progresso

Una favola del 3° millennio o semplicemente un fatto di cronaca avvenuto in un mondo destinato a scomparire travolto dalla modernità.
C’era una volta nel golfo del Bengala, – l’incipit è d’obbligo – un’isola dalla superficie di 72 chilometri quadrati: un luogo del mondo dimenticato non solo da internet e da Google maps ma anche da quella che noi chiamiamo civiltà.

New Delhi che ne costituisce dal ’47 l’autorità di tutela, le ha dato il nome di North Sentinel cioè “Sentinella del nord” e di conseguenza i suoi abitanti – non più di 300 anime – hanno preso il nome di Sentinelesi ovvero “Sentinelle”, metaforicamente per difendersi da quel mondo che esiste al di là del litorale e che da oltre 70 anni non li interessa, non li alletta, preferendo vivere al riparo dalla confusione che purtroppo domina il nostro quotidiano.

Negli anni 90, le “Sentinelle” hanno permesso ad un antropologo indiano di accedere all’isola per scattare qualche diapositiva, ricevendone in cambio frutta e noci di cocco. Ma dopo questa parentesi, il silenzio è ritornato in questo mondo incontaminato.

La scorsa settimana, inaspettatamente, un turista americano ha cercato di esplorare l’isolotto ma è stato accolto dal lancio di una miriade di frecce che lo hanno ucciso. I giornali indiani hanno scritto che il missionario americano si era recato in quel luogo integro, per portare il verbo della sua chiesa. Ma al contrario degli ultimi Alakalufs della Terra del Fuoco, che si arresero subito all’invasione degli stranieri, questi indigeni, sentinelle del loro mondo, hanno dimostrato di saper difendere il loro territorio inviolato.

Naturalmente, le intelligenze contemporanee si sono scatenate in interpretazioni antropologiche sull’accaduto: paura del diverso, timorosa autodifesa, sfida alla modernità, xenofobia militante? Niente di tutto questo, le sentinelle hanno voluto solo salvaguardare il loro stare insieme, lontani dal progressismo che li minaccia. Sembra assistere a una rappresentazione teatrale in cui un disilluso umanista, deciso a combattere la fame nel mondo, finisce paradossalmente per essere divorato da una tribù di cannibali. Certamente non è cosa buona e tanto meno giusta ammazzare i turisti, specialmente se si presentano con pretese evangeliche, ma è anche vero che non è assolutamente vietato sognare.

Chiunque abbia visitato Venezia e si è ritrovato – come descrive Régis Debray nel suo delizioso pamphlet “Contro Venezia” – tallonato da orde di cinesi impegnati in selfie impazziti o abbia rischiato di venire calpestato, nei musei serenissimi, da una moltitudine di zombie che non smettono mai di fotografare con i telefonini, quadri di splendida bellezza, invece di contemplarne la struggente rappresentazione, non può che rimpiangere di essere uscito da casa senza avere portato con sè arco e frecce.

Nessun intento di voler romanzare la storia delle Sentinelle, come il buon Salgari con le tigri di Mompracem, eppure, per quanto tempo il popolo delle Sentinelle riuscirà ancora a vivere senza le contaminazioni del femminismo, dell’umanismo o del capitalismo? Sopravviveranno senza le cellule di sostegno psicologico, le fobie del tempo, i kebab, gli show del Grande Fratello, Amici e senza le teorie di genere e le leggi contro gli schiaffoni dei genitori?

Una cosa è certa: al di là dei gulag molli e delle comunità fiorite della nostra società, le Sentinelle hanno un mondo ancora bello e incontaminato.

Eugenio Preta