Il referendum costituzionale a Cuba

Il fragile equilibrio planetario subisce accelerazioni e rallentamenti che determinano una continua metamorfosi degli scenari sociali, economici e perfino morali. Ne è l’esempio la politica estera degli Stati Uniti che dall’ancestrale tentazione mondialista sta passando ad uno strabismo isolazionista che oggi impone, a causa del petrolio e di svariati interessi economici, a riconcentrarsi sull’America latina, loro tradizionale zona di influenza.

Donald Trump, in questo momento, è certamente più attento a quello che succede alle sue frontiere piuttosto che alle vicissitudini dei mercati di quell’impero lontano teorizzato dai neo-conservatori che, cacciati dalla porta centrale della Casa Bianca, non smettono di affacciarsi sulla porta di servizio.

Ormai la gloriosa frontiera del Rio Grande – tanto conosciuta da cow-boys e indiani e dal mitico John Wayne – da quando gli Stati Uniti hanno praticamente annesso tutti gli Stati del nord dell’America del sud è rimasta solo una pagina di Storia. Del resto, il filo che lega storicamente tutta la regione è testimoniato anche dei nomi ispano-cattolici di città come Los Angeles, San Francisco, El Paso, senza dimenticare certamente Alamo e la pagina gloriosa scritta da pochi volontari, tra cui Davy Crockett, che sacrificarono la loro vita per bloccare l’avanzata del Generale Santa Ana e le mire espansionistiche del Messico.

La Storia ci insegna che guerre e saccheggi spesso stanno all’origine di una nazione; una lezione che tuttavia si tende a dimenticare e che non serve ad impedire agli Stati Uniti, oggi estremamente sulla difensiva rispetto alle frontiere con il Messico, di dimostrarsi aggressivi verso le altre, come quella Venezuelana dove Washington attualmente segna il passo, stretto dai veti dei russi e dei cinesi.

Una situazione di stallo da cui Cuba, forte di una esperienza consolidata di sopravvivenza politica e premiata dalla sua posizione strategica nel mar dei Caraibi, riesce a trarne vantaggio meglio di altri, legata com’è a doppio mandato alla politica estera di Pechino. In definitiva un successo innegabile del dogma cinese, oggi esportato all’Avana, basato sulla coabitazione di due sistemi economici una volta considerati antimonici: lo statalismo e l’iniziativa privata, uniti sotto l’egida di un potere centralizzato che, nel caso di Cuba, rimane ancora diviso tra il presidente della repubblica Diaz-Canel e il primo segretario del partito comunista cubano, Raoul Castro.

Così è passato quasi inosservato un avvenimento importante nella storia recente di Cuba: il referendum che gli scorsi giorni ha portato i cubani alle urne per esprimere il loro consenso alla riforma della Costituzione; referendum, che pur costituendo sicuramente un fatto nuovo per Cuba, non rimane però un fatto isolato perché già una prima volta, nel 1976, i cubani erano stati convocati al voto. E se il quesito referendario è rimasto sempre uguale, lo stesso si può dire anche del risultato che riflette, ora come allora, la ferma voglia dei cubani di riforme.

Oggi l’86% dei cubani ha approvato il referendum rispetto a quel 98% del 1976. Una effettiva conferma in termini assoluti che, pur adducendo un certo sapore tropicale e bananiero, rimane in ogni caso iscritta nell’agenda politica della piccola isola.

Niente di veramente nuovo sul fronte caraibico, così come il riferimento al comunismo dell’isola di Cuba che ormai testimonia soltanto un vecchio attaccamento affettivo senza grande impatto concreto; comunismo che deve ritenersi soltanto una reazione identitaria di fronte ad un vicino sempre imbarazzante, una reazione che conferma che il popolo cubano, comunista o democratico o castrista, continua quella tradizione socio-culturale propria dell’isola secondo la quale gli Yankees potrebbero anche essere considerati gli amici migliori, purché riescano però a rimanere a casa loro.

Eugenio Preta