Le bugie americane sull’attentato del golfo persico

Diventa di stringente attualità una frase profetica del presidente americano Abramo Lincoln, che diceva come non si possa ingannare sempre una parte del popolo. Ne è prova l’attuale tensione che agita il Golfo Persico, zona di grande importanza strategica perché costituisce il passaggio obbligato di gran parte dell’approvvigionamento petrolifero del pianeta, da quando le sue superpetroliere, norvegese e giapponese, sono state bersaglio di un attacco armato. Ma dobbiamo veramente credere che gli americani non ci raccontano ancora delle menzogne e porre fiducia nella loro versione?

Non sarebbe certamente la prima volta che ingannano il mondo. Abbiamo gli esempi dei neonati kuwaitiani assassinati nelle loro culle dalla soldatesca irachena nel 1990, o ancora le armi di distruzione di massa degli stessi iracheni del 2003 sbandierate ‘orbe terrarum’ dal generale Powell come prova determinante dell’attacco sotto egida Onu.

Nelle cronologie del registro marittimo ci sono anche i due cacciatorpedinieri americani ufficialmente affondati nell’agosto del 1964 nel golfo del tocchino dai comunisti del nord Vietnam, in verità ufficiosamente sacrificati da Washington, come riconosciuto finalmente dalla Casa Bianca solo nel 2005.

Bugie che anche i media più americanizzati osano finalmente mettere in discussione proprio nella logica che troppe menzogne finiscono per banalizzare la menzogna stessa. Però sembra che i tempi stiano veramente cambiando, grazie all’offerta informativa diversificata offerta dalle reti sociali, dalle quali apprendiamo che lo stesso armatore giapponese di una delle navi in questione smentisce la versione americana della mina posata sul fianco della nave e prefigura invece il lancio di un missile. Ma lanciato da chi?

Le immagini dei media più ostinatamente filo-americani non dimostrano un bel niente e confermano che i video prodotti dagli americani lasciano aperte ulteriori domande più che offrire possibili risposte, e non dimostrano assolutamente alcunché.

Per riprendere l’incipit del presidente Lincoln, la prudenza è d’obbligo e non si sa effettivamente a chi possa tornare utile il crimine commesso. Naturalmente un’iniziativa iraniana ordinata dalle alte sfere dello Stato e da una delle fazioni più bellicose non si può escludere a priori, ma i soli argomenti che Washington ed i suoi alleati possano accampare per accusare apertamente Teheran sono le minacce regolarmente avanzate dagli iraniani, soprattutto dai Pasdaran guardiani della rivoluzione, di voler chiudere lo stretto di Ormuz.

Resta la pista israeliana del Mossad, che i media iraniani però non vogliono neanche prendere in considerazione preferendo allinearsi alla tesi della responsabilità di Pompeo, che pur invoca proditoriamente l’uso della diplomazia E la pista americana?

Come provocatori gli Usa non sono soggetti a nessuno, ma non è assolutamente sicuro che Trump voglia imbarcarsi in un’altra guerra in questa regione del mondo, guerra le cui conseguenze potrebbero essere deleterie per tutti, nonostante il gesticolare alla guida di predicatori evangelisti isterici di Pompeo e del suo assistente John Bolton, già ambasciatore Usa all’Onu al tempo della decisione dell’attacco a Saddam Hussein.

Rimane quindi più di una ipotesi la tesi della responsabilità di Ryad, il cui principe ereditario è diventato paradossalmente famoso per un’azione amatoriale come quella di fare tagliare a pezzi nelle ambasciate più fedeli i compatrioti giornalisti.

A questo punto, se l’attacco nel Golfo Persico porta effettivamente le caratteristiche di una vera azione amatoriale e senza senso, non si può escludere la responsabilità di Ryad, specialmente per quella specie di firma autografa apposta nei due attacchi nel Golfo Persico.

Eugenio Preta