L’ignoto marinaio, in ricordo di Vincenzo Consolo

Ho visitato oggi, nel cimitero di Sant’Agata Militello, la tomba di Vincenzo Consolo. L’ora mattutina mi riportava a quel giorno lontano del 2012 quando, nella Chiesa del Sacro Cuore di Sant’Agata di Militello, quell’ignoto marinaio trovava finalmente la sua isola e, nel silenzio di candelabri e fiori dipinti, acquietava il suo errabondo andare per piazze e contrade, la sua voglia di girare e rigirare l’isola ogni volta che da Milano vi ritornava per una parentesi di serenità.

Un ritorno alle origini: Sant’Agata di Militello, il suo mare, il “passìo” ma anche la dolorosa visione delle sconforto di quei giovani siciliani, dopo la consuetudine acquisita allo smog e alle nebbie di un Nord parsimonioso e frenetico, ma irrimediabilmente lontano.

E nel nostro sentire più intimo, ci sentiamo privati di un punto polare di riferimento culturale, un maestro di vocaboli e parole, ricercatore e forgiatore di una lingua siciliana vera, non artefatta né fasulla come quella di tanti inventori di storie commerciali che oggi hanno scoperto nel dialetto, neanche poi universale dei paesi inventati, la fortuna dei loro scritti.

Con Consolo, scorrevano sulle pietre vive del quotidiano, le acque scarse e forse inquinate dei torrenti delle piane siciliane, sotto le balze, fino ai muri a secco, nella sperimentazione linguistica che trovava in termini mutuati dai classici, antichi, aulici e barocchi, l’origine di un linguaggio poetico, forgiato nella modernità delle rivolte contadine prima e nei gas di scarico dei motori oggi, certamente nuovo e di una beltà trascendente il tempo e lo spazio e le mode.

Tanti scritti, per noi sempre pochi però, ormai chiusi nella scansia dei ricordi, nei ripiani di una biblioteca che si piegano oggi sotto il peso di voluminose raccolte di parole, alcune superflue ma altre preziose e irrinunciabili come quelle di Pirandello, Bufalino, Consolo, D’Arrigo, D’Anna, Tomasi di Lampedusa, Salvatore Quasimodo, Lucio Piccolo e per la formazione di una coscienza critica e di una accennata conoscenza linguistica sperimentale.
E’ strano, ora che il carro funebre del maestro di “Retablo” ha attraversato autostrade e trazzere per poi fare ritorno a casa Consolo, che si siano interrotte quelle prese di coscienza dei cittadini che avevano lasciato immaginare il risveglio della Sicilia tutta e che invece, sia ricominciata la diaspora dei giovani siciliani verso il nord, quasi in controsenso a quel viaggio finale del maestro, quasi a non voler imbarbarire con le accezioni del quotidiano, quel cammino definitivo verso il sacro e l’incondizionato.

Rimane la tristezza di un giorno che ci ha riportato a ripensare a questa nostra terra tradita, ad una lingua che vorremmo anche noi poter possedere e forgiare come aveva fatto Vincenzo Consolo. Ripensare al barone Piraino, alla sua Mandralisca, a Lo spasimo di Palermo, a L’olivo e l’olivastro, a Retablo, a Le pietre di Pantalica, a Nottetempo casa per casa, alle descrizioni dello Stretto più nitide delle foto di Ferdinando Scianna e, per un attimo ripensare anche a Gesualdo Bufalino e a quella sua vita che, diceva, pur forte tra le dita, per malconcia che fosse, ma che lentamente scivolava via.

La nostra Isola, oggi come 5 anni fa, si è fermata idealmente per un attimo, mentre sembrano bruciare ancora le candele di quella cerimonia finale, nel continuo girare e rigirare i luoghi della nostra terra e, come diceva Vincenzo Consolo, nella voglia e nella smania che non ci lascia mai stare fermi in un posto….. trepidi e spaventati mentre sospettiamo sia questo una sorta di addio, un voler vedere e toccare prima che uno dei due sparisca per sempre.

Eugenio Preta