MAFIA, OMERTA’, POLITICA

Mascalucia, 19 Luglio 2005

E’ difficile una disamina corretta della trilogia Mafia, Omertà, Politica soprattutto perché la politica italiana – coi suoi infiniti misteri – ha avuto la capacità di alterare persino il vocabolario e di deformare la storia della Sicilia.


Molti sono gli illustri “maître-à-penser” che si sono cimentati nell’interpretazione letteraria e morale dei termini: Mafia e omertà….in Sicilia”, cercando una spiegazione, soprattutto, del …perché in Sicilia? Chiunque commetta dei delitti è un criminale dovunque si trovi; solo in Sicilia viene definito mafioso.

La Politica, intesa nell’accezione italiana, è la componente che può darci l’unica chiave interpretativa che, se non è quella definitiva, vi si avvicina più delle altre.

Nell’uso della lingua siciliana – dalla quale nacque poi quella italiana – il termine Mafia e Mafioso era adoperato nel significato di “giovane di successo”, aitante, forte e robusto, esperto, sportiveggiante, esuberante, di buona famiglia e di buone maniere, con capacità personali e culturali non comuni.
Questo era il prototipo del “MAFIOSO”, simpaticamente accolto nell’ambito della società. Lo stesso Vittorio Emanuele Orlando pubblicamente dichiarò che “…se questa è mafia, io voglio essere il primo mafioso…”

Più tardi, dopo la piratesca occupazione garibaldina, specialmente se il giovane Mafioso era munito di un minimo di acculturamento, gli si attribuivano le capacità di derimere le vertenze intersociali ed era ricercato, altresì, per le funzioni di “fattore” all’interno dei latifondi. I contadini, quasi sempre analfabeti, si rimettevano al giudizio del “Fattore (mafioso)” per risolvere le loro vertenze, i loro destini, le loro angustie, all’insegna di una riconosciuta superiorità e saggezza.

La “classificazione”, congiuntamente ad una sia pur modesta capacità culturale, assunse il massimo della funzionalità dopo la devastazione dei garibaldini, allorché i siciliani, accorgendosi di essere stati ingannati e truffati dai “liberatori di turno”, scoprirono l’ossessiva e pericolosa ingerenza dei “magistrati stranieri”, che fecero sterminio dei siciliani che si permettevano di mormorare un ragionevole risentimento, dando inizio all’era delle “sentenze nel nome del popolo italiano”!

Le fucilazioni, che imbrattarono di sangue le piazze siciliane, costituirono la più solenne lezione per i siciliani che, come conseguenza, impararono la regola del silenzio e la diffidenza verso la “giustizia straniera” rappresentata, in Sicilia, da elementi dello stesso falso esercito liberatore, usi a punire con processi sommari e con le fucilazioni, all’insegna di un’ancora più falsa “autodafè”.

Questi giustizieri improvvisati – tra i quali brillò per crudeltà il prodittatore Nino Bixio – erano piemontesi trasferiti in Sicilia, in trasferta coloniale, per imporvi l’ordine del nascente imperialismo democratico-piemontese-italiano. La proclamazione dell’unità d’Italia è posteriore a questi eventi.

Ma torniamo al nostro tema iniziale.

I Siciliani impararono la consegna fondamentale del “silenzio”, predestinata a diventare una regola e un fenomeno locale, ancor oggi funzionante: diffidare di ciò che non è siciliano, inclusa la pseudo-giustizia dei magistrati piemontesi (poi divenuti “italiani”), e dalle regole imposte dal colonizzatore.

L’imperversare del fiscalismo, come sempre immorale; la legislazione oscurantista; le facili fucilazioni; la spoliazione delle Chiese ed altre vicende similari, indussero i siciliani ad una condotta – come dire? – di chiusura autoprotettiva, limitando al massimo i contatti con le nuove istituzioni. Per prima cosa impararono, appunto, a fare a meno della magistratura piemontese, che scoprirono insidiosa e preoccupante.

In siffatte circostanze – e in quel clima – ebbe inizio la “rivalutazione” dei “mafiosi” descritti prima, i quali – senza averla richiesta – si ritrovarono ad esercitare l’involontario ruolo di giudici, di consiglieri, di tutori di una massa di analfabeti.

I Siciliani, insomma, avevano appreso la regola del silenzio che, nell’accezione del dominatore, fu definita frettolosamente la “regola dell’omertà” la quale, abbinata alle involontarie funzioni dei “Mafiosi”, divenne il sostegno di una nuova ipotetica “criminalità” che sottraeva, involontariamente, il lavoro ai giudicanti stranieri.

I rapporti e le vertenze tra cittadini, finchè possibile, venivano pacificamente risolti al di fuori delle ingerenze straniere. Ma anche questa strana concorrenza ufficiosa ai “poteri giustizieri del nuovo Stato”, fu classificata come mafiosa e delinquenziale.

Il progredire del sistema, lento ma inesorabile, spesso imponeva, ai mafiosi, l’uso di una punizione diretta – anche se deprecabile! – con la quale si fortificò la regola dell’omertà.

E’ evidente, dunque, che l’omertà nacque dall’esigenza di estromettere, nei limiti del possibile, gli interventi del colonizzatore dalle vicende intersociali siciliane. Ma soprattutto nacque dalla tragica esperienza delle fucilazioni e dell’applicazione di certi criteri giudiziari che i siciliani hanno sempre rifiutato.

Usando la terminologia medica, all’interno della Sicilia si è sempre avvertito il fenomeno del “rigetto fisiologico” delle istituzioni italiane, il cui sintomo principale è costituito dalla generalizzata consegna del silenzio, onde evitare le ritorsioni degli stranieri, altrettanto pericolose della locale giustizia diretta, ormai operante. I cittadini più evoluti, anche se involontariamente assurti al ruolo di giudicanti e di consiglieri, vennero pubblicamente indicati con la definizione di “mafiosi”.

In principio avere un figlio “mafioso” era motivo di orgoglio per i genitori; poi divenne una perversione criminosa. Il termine mafioso è diventato sinonimo di “malavitoso”, non tanto per la degenerazione dei protagonisti, quanto per la degenerazione letteraria della lingua siciliana, ad opera di coloro che siciliani non sono.

I primi risentimenti contro gli invasori piemontesi-garibaldini furono attribuiti ai “picciotti” cui era stata promessa “a Terra”, oppure “a roba”… se avessero collaborato alle piratesche operazioni belliche dei garibaldini contro i Borboni.

Occupata facilmente la Sicilia – non per le inesistenti capacità dell’esercito raccogliticcio garibaldino, ma per le scorrettezze delle false promesse – il sedicente Generale conquistatore se ne attribuì la dittatura “motu proprio”, proseguendo il suo viaggio verso Roma e lasciando il governo dell’isola nelle mani del suo vice, prodittatore Nino Bixio, che propugnò il terrore e radicalizzò il processo di rigetto.

Ai giovani che reclamavano l’adempimento delle promesse, ovvero: La donazione della TERRA, (che a quell’epoca aveva un significato magico), secondo la regola del silenzio venne data la fucilazione, per non turbare i nuovi equilibri dei dominatori e le frequenti e immense truffe morali e materiali del potere ormai costituito.

Il risultato fu che il ricorso all’autodifesa: amministrativa, morale, protettiva, sostanziale, fiscale, in apparenza opinabile anche ai nostri giorni, sin da quei tempi fu considerato l’unico e più efficace sistema per sfuggire alle intemperanze dello straniero colonizzatore. Perché tali furono considerati i piemontesi, specialmente dopo l’imbroglio di Teano tra il Vittorio Emanuele II e Garibaldi.

Costoro non erano arrivati in Sicilia per migliorare le condizioni dei Siciliani, credere a questa idiozia era estremamente ingenua. Ma vi irruppero per depredarci col terrorismo. Funzione del resto ancor oggi operante, che fa dell’Italia il peggiore colonizzatore, dedito esclusivamente alle oppressioni fiscali, benché spesso illegittime e illegali.

Appena giunti, i piemontesi, debuttarono appropriandosi dei beni delle Chiese, che utilizzarono per pagare i loro debiti di guerra. Indi imposero “la tassa sul macinato”, che significherebbe “la tassa sul Pane”.

Ma non è solo il fisco il bacino di drenaggio delle ricchezze siciliane che prendono la via dell’Italia la quale, tuttavia, ostenta per la Sicilia un solenne disprezzo segnalandola con lo stereotipo della MAFIOSITA’, pur nella degenerazione semantica ormai nota.

Rientrando nel nostro lessico: Col termine “Mafia”, in origine, si indicavano i saggi personaggi invocati privatamente ad amministrare equamente i rapporti intersociali. Col termine “omertà” si indicava l’esigenza di derimere al nostro interno – imponendoci il silenzio – le questioni intersociali, facendo a meno delle interferenze di giudici estranei alla fisiologia siciliana.

Il sistema si è consolidato col tempo e con le esperienze, dando origine a due fenomeni poco gradevoli nell’intesa della comune morale (che non è siciliana e nemmeno italiana!): La giustizia diretta ha avuto bisogno degli esecutori (ma anche la giustizia istituzionalizzata ha gli esecutori!). Si è creata, insomma, l’esigenza della certezza esecutiva delle definizioni, imponendo la presenza di esecutori che hanno trascinato nei gorghi dell’illecito tutta la Sicilia ed hanno elevato a livelli di “potere” i personaggi del complesso sistema, nel frattempo divenuto sommerso..

A parte che il concetto di “potere” è sempre un grosso problema sociale, data la sua naturale predisposizione alla pervertimento; ma c’è anche da rilevare che i potenti, indipendentemente dal settore di appartenenza, finiscono sempre per assimilarsi tra di loro, usandosi reciprocamente: ecco dunque che entra in scena il “potere politico” che adopera, qualificandolo, il potere mafioso, dal quale si lascia a sua volta adoperare. E’ nata così la simbiosi, esistente anche ai nostri giorni.

In sostanza ciascuna delle componenti usa il potere dell’altro per mascherare le proprie deprecabili funzioni o malefatte. Il resto – si tratta invero di un meschino resto! – sono gli operai del delitto; sono gli esecutori; sono quelli che non conoscono nessuno e nessuna regola dell’impianto politico-mafioso costituito. Sono i poveri, i derelitti, gli infelici, i disoccupati in carriera, che per sopravvivere si vendono ai poteri costituiti. Di solito conoscono solo il personaggio che li ha contattati, del quale tuttavia ignorano la gerarchia, le funzioni, le relazioni occulte. Egli, il personaggio, ha il solo compito di “commissionare” la punizione alla sottostante – e occasionale – manovalanza, dietro adeguato compenso monetario, a condizioni assolutamente omertose ed episodiche, con la garanzia (che non tutti possono fornire!) che non sarà disturbato dalla giustizia di Stato.

Di quell’altra giustizia, incidentale, molto teorica e ipotetica, si sono serviti i siciliani costretti ad eludere le intromissioni dei giustizieri stranieri, ai quali non hanno mai accordato la loro fiducia.

Anche questo tipo di risorsa, benché incerta e opinabile, ha destato la ragionevole reazione delle istituzioni, più o meno straniere, ma comunque presenti. E’ vero che certe attività non riscuotono l’approvazione di alcuno, ma il fatto è che con l’inserimento della politica ufficiale, il raggio d’azione si è allargato e non solo a carico della Mafia – che nella realtà non esiste – ma soprattutto a carico dei politici e dei rapporti che essi intrattengono con taluni siciliani che loro stessi hanno creato e potenziato, per potersene servire all’occorrenza.

Questa è la spiegazione di quei delitti che, stranamente, avvengono in trasferta, in Sicilia…. Anche quando non sono siciliani gli attori, le vittime, le ragioni, gli interessi, le parti in causa. Sono siciliani, però, i manovali delle esecuzioni delittuose, anche si è scoperto che talvolta sono…di importazione, ma spacciati per siciliani.

Hanno scoperta l’utilità che certi delitti avvengano in “terra siciliana”, per poterli più facilmente attribuire allo stereotipo mafioso. Così la Sicilia, indicata come terra di molti privilegi, per una volta diventa il tragico scenario di efferati delitti che, onestamente giudicando, non sempre le appartengo se non che come… scenografia.

In Sicilia ci sono due forti stereotipi per mascherare i delitti altrui: La Mafia, nell’accezione e implicazione politica voluta dagli italiani. L’omertà, cui attribuire il fallimento della giustizia istituzionale incapace di superare, appunto, le barriere (funzionali) dell’omertà.

In uno dei delitti eccellenti, consumati in Sicilia, qualcuno ha segnalato “i killer” giovani aitanti, con occhi azzurri e capelli biondi. Ebbene, queste caratteristiche da “dolicocefalo biondo”, mal si associano alla struttura dei siciliani!

Ma in chiusura, allora, si impone un’ultima deduzione: La Mafia, nella sua significazione originaria è tutt’altro che criminale. Però è stata sempre utilmente adoperata per mascherare i fenomeni politici e criminosi non siciliani, risalenti alla colonizzazione illegale dell’isola. Gli stessi fenomeni che col tempo, perfezionandosi, han dato luogo all’odierna oppressione.

L’omertà è la conseguenza logica del comportamento politico del paese che occupa illecitamente la Sicilia. La politica infine è, nel suo insieme, serve a dimostrare come e dove nasce, come evolve e si conclude, il malaffare italiano che coinvolge la Sicilia.

Non esisterebbe la Mafia senza il collegamento con la politica; non esisterebbe l’omertà senza l’oppressione morale ed economica dei poteri stranieri; non esisterebbero gli esecutori dei delitti se non ci fossero i “committenti dei delitti” e la loro capacità compensativa, nonché i personaggi interessati ad eliminare gli incomodi concorrenti, o “conoscitori….di troppe… cose!…”.

Si può concludere affermando – senza timore di essere contraddetti – che quel tipo di Mafia è stata inventata dagli italiani ed esportata in Sicilia per loro comodità, perché proprio in Sicilia non esiste.

Cercatela altrove, se volete trovarla.

Vito Vinci