Le quattro piume della codardia

In principio fu la negazione più ostinata della sciagura epidemica che, in assenza di tutte le caratteristiche utili a definirla tale, non fu ritenuta degna di interesse.

L’Impero di mezzo aveva ignorato le avvisaglie del pericolo perché il male, il pericolo, il nemico non può esistere se non ne ha ottenuto l’opportuna certificazione da parte delle tecno-strutture al potere. Le burocrazie infatti non lottano contro nemici invisibili, pubbliche dicerie o elucubrazioni individuali di incompetenti o contro i capricci di una marmaglia imbecille.

C’è voluto un po’ di tempo per regolare responsabilità politiche e clientele e per essere sicuri di avere di fronte una sciagura ben robusta, di buona fattura, visibile, nuova, originale, inedita e letale. Senza questi requisiti, inutile parlarne. Perché un male possa essere identificato e ne ottenga la certificazione, deve essere degno d’interesse. Così soltanto a contagio diffuso, morti a iosa, soltanto su numeri inconfutabili si stabilì di occuparsene.

Arrivò quindi il tempo dell’ira: i cittadini stupidi, furbi, indisciplinati o ignari, hanno propagato il male per la loro condotta. Stupita dalla velocità del contagio, l’opinione pubblica reclama ora misure radicali e la testa dei colpevoli.

L’isolamento forse potrà arrestare il male e farlo fuggire, ma sono necessari dei sacrifici, il male non svanirà se la gente non farà dei sacrifici.

L’atteggiamento di ciascuno dovrà essere esemplare, si tratta di una vera e propria epidemia, cerchiamo ora di isolare il virus, ci penserà poi Dio a riconoscerà i suoi.

Le strade oggi sono vuote, attraversate dalle sirene e occupate dai sergenti della città in un balletto strano ed inquietante. Siamo tutti possibili complici del diffondersi del male, a causa della nostra igiene, pubblica e privata, mentale pure, spesso deprecabile. Ne è prova il fatto che abbiamo aspettato che il male arrivasse minaccioso per capire finalmente oggi la necessità di disinfettanti e di mascherine in quantità sufficiente. Troppo tardi.

Questa nostra reclusione, ne siamo oggi convinti, non è che il prezzo che siamo condannati a pagare, nonostante il fatto di aver consacrato la metà dei nostri salari nelle casse degli Stati per tutelare la nostra salute e proteggere la qualità della nostro modello di vita.

Oggi siamo disposti a pagare un prezzo sempre più importante: la nostra libertà, quella libertà di andare e di venire, di fare impresa, di vedere i nostri amici, di lavorare. Non possiamo più tergiversare, non c’è nessun’altra soluzione, resta solo quella possibile, dal momento che abbiamo, sin dall’inizio, negato, rifiutato la realtà che si svolgeva sotto i nostri occhi. Così, oggi, ci riteniamo persino lusingati di essere invitati ad una grande prova collettiva, di vivere l’ebbrezza del pericolo e l’incertezza del domani.

Siamo così precipitati in un pericoloso tornante della Storia, una vera battaglia che stiamo però combattendo nel chiuso delle nostre case.

Un sacrificio che consumiamo a domicilio, con il nostro sofà come altare. Vittime consenzienti e consapevoli del necessario castigo, intrecciamo le dita a cuoricino, poniamo le candele sulle finestre, prigionieri senza combattere, costretti a fare il nostro dovere: denunziare il vicino che passeggia il suo cane, sorvegliare i movimenti della strada vuota. Poi verrà il tempo delle rovine.

La storia ha conosciuto civiltà scomparse, opulenti città misteriose abbandonate senza ragione apparente, imperi inghiottiti nello spazio di poche ore.

Popoli liberi e ribelli, vivaci e resistenti al male che avranno deciso, senza alcuna discussione, che il loro avvenire si doveva fermare. Dall’oggi al domani i cittadini hanno chiuso le botteghe e si sono dispersi nel vuoto, lasciando la loro cultura e la loro civiltà dissolversi in un nuovo stato selvaggio.

Siamo entrati in una fase di guerra?

Il silenzio, poi il fragore, il gusto del sangue e del ferro nella gola, gli occhi che bruciano ed i piedi stanchi, le uniformi, la massa e il disordine, il dolore, l’ingiustizia e la violenza, l’adrenalina, la paura prima della battaglia, la promiscuità, l’onore ai morti, lo sforzo, il sudore, le lacrime e la fatica.

No, nonostante tutto la guerra rimane un’altra cosa. La guerra è sapere che ci saranno delle perdite, significa vivere nel pericolo, lottare sperando nella vittoria e nella pace. La guerra è epica, significa combattere per i compagni, difendersi per non essere imprigionato o ucciso. No, non è la guerra. È un virus che ha attraversato il tempo e le nostre città: la paura.

Eugenio Preta