Dopo l’ipotesi progressista dell’esperanto, il latino come lingua ufficiale dell’Unione europea?

Sembra riprenda vigore la tematica della scelta di una lingua comune europea, anche perché, in seguito all’abbandono dell’Unione europea da parte della Gran Bretagna, ci si comincia a chiedere perché dopo la Brexit, si debba mantenere ancora l’inglese come lingua veicolare.

In realtà, dopo le adesioni degli Stati dell’Est, paesi che erano stati per tanto tempo satelliti dell’Unione sovietica che aveva imposto la lingua russa in tutti gli ordini di insegnamento scolastico e in tutti i settori della vita amministrativa, si era arrivati al paradosso che il russo, certo non ufficialmente, ma ufficiosamente, nei corridoi, negli ascensori e negli incontri conviviali, aveva costituito una vera lingua diffusa, soppiantando il francese che era stata la lingua originaria della prima comunità europea del carbone e dell’acciaio e per tanto tempo la lingua parlata dalla diplomazia di tutta Europa.

La scelta di una lingua ufficiale comune di questa Unione Europea aprirebbe tra gli Stati uno scenario conflittuale di difficile soluzione anche perché, per arrivare ad un eventuale accordo ci sarebbe bisogno del voto unanime del Consiglio europeo. Con una provocazione che poi tanto provocazione potrebbe anche non essere, qualche spirito libero ha proposto un’ipotesi suggestiva: il ritorno al latino che avrebbe tutte le caratteristiche per diventare la lingua comune di questa Europa. Non mancherebbero certamente argomenti e valide suggestioni come supporto alla possibile candidatura della lingua di Cicerone e dei classici latini, in primis per la gioia dei tanti latinisti esistenti, ma anche di quelli che ritroverebbero nella scelta del latino la riscoperta dell’eredità greco-romana del Vecchio continente.

È infatti evidente che la lingua latina abbia strutturato la totalità delle lingue che si parlano oggi in Europa sia in tutte le loro sfaccettature grammaticali, sia in tutte le forme lessicali derivate. Del resto il latino porta in sé due millenni di una cultura scritta rimandata dalle opere dei suoi autori ed oltre a costituire lo stretto legame che ha unito gli spiriti degli europei è da considerarsi una lingua politica per eccellenza.

Ma non illudiamoci: la proposta del latino, piuttosto l’auspicio di una sua eventuale scelta, appare soltanto un’utopia, seducente ma irrealizzabile. Purtroppo, molti Paesi europei hanno rinunciato da tempo a rivendicare una loro identità classica di cui non hanno capito il valore, anzi hanno praticamente, e scientemente, messo fuori gioco questo patrimonio inestimabile.

Nelle scuole europee non si insegnano più le lingue classiche e nelle scuole secondarie ad indirizzo classico, il latino, così come il greco, sono sovente considerati e studiati solo come una semplice introduzione alla cultura antica, trapassata. Nelle università poi, le facoltà di lettere classiche, sempre meno frequentate ed attrattive se non comprendono nuovi costrutti didascalici rischiano penosamente il fallimento. Il risultato più evidente è che nei concorsi pubblici non si trovano più candidati sufficienti a ricoprire i posti offerti dal bando: il latino ormai è considerato un lusso inutile e persino la lingua delle “élites”,

Certo rinnovare l’insegnamento del latino e poi promuovere una sua scelta come lingua ufficiale servirebbe a connotare l’Europa di una identità ben precisa, a diffondere finalmente simboli ritenuti oggi politicamente scorretti come la forza della volontà, il rigore delle scelte, la potenza delle idee. Resterebbe però una vera e propria illusione se ripensiamo, ad esempio, alle lotte sostenute per opporsi alla richiesta di iscrivere nel Preambolo di quella Costituzione europea bocciata dai cittadini ma firmata dagli Stati, il riferimento alle innegabili radici cristiane dell’Europa.

Il progressismo rampante ha già bocciato la possibilità della scelta del latino come lingua comune, avendo catalogato in un tempo ormai superato il valore della tradizione dimenticando come spesso, questa stessa, possa essere fonte ineluttabile di modernità. Probabilmente l’hodgepodge inglese, l’accozzaglia linguistica, resterà per molto tempo la lingua veicolare delle istituzioni europee ed internazionali: ormai è la lingua dei brevetti, dei commerci, del libero scambio, e non ha nessuna intenzione di recedere.

La lingua inglese è l’esatto riflesso dell’identità attuale di questa Europa: decidere ora di cambiarne la lingua significherebbe accettare di stravolgerne l’identità e spingerla a ritornare ad essere quella che avrebbe dovuto essere da sempre: l’Europa degli Stati nazione.

Eugenio Preta