Propositi post-natalizi

Rinunziare ad utilizzare l’augurio “Felice Natale” sostituendolo con un semplice e banale “Buone feste” è sicuramente stato un atto di vigliaccheria quotidiana, anche se in tanti poi si saranno rallegrati dell’abbandono del tradizionale augurio e lo avranno salutato come sinonimo di apertura verso l’intera umanità, verso la diversità e l’inclusione dell’altro.

Dimenticando però che proprio la difesa di una cultura, di una lingua, di una religione, di un modo di vita costituisce cioè che preserva la diversità come ricchezza del genere umano.

La protezione dell’identità non è mai un ostacolo allo scambio, anzi ne è quasi caratteristica essenziale perché garantisce la differenza, la complementarietà e la scoperta dell’altro.

Natale è nello stesso tempo la celebrazione annuale della nascita del Cristo e della rinascita del Sole nell’emisfero nord. Costantino, nel desiderio di salvare l’impero affermandone la sua unità, aveva stabilito il 25 dicembre come il giorno del Sole invitto “sol invictus” il nuovo Dio di Roma.

Sapere a questo punto se i cristiani celebravano già il Natale, o se il furbo Costantino fosse passato da una fede all’altra o se la cristianità avesse sostituito una festa pagana con una cristiana, ha poca importanza. È stata l’unione delle due celebrazioni ad averne costituito l’essenza reale.

Altre civilizzazioni invero hanno festeggiato il solstizio, ma soltanto la nostra è riuscita a mutare un fenomeno cosmico naturale e ciclico in un evento storico, una data fondatrice del destino dell’umanità che, certamente non a caso, ha fatto nascere nel suo interno una concezione più lineare del tempo ma soprattutto l’idea del progresso.

Col XX secolo abbiamo assistito ad un mutamento che oggi comincia a far sentire le sue conseguenze: le due grandi guerre hanno segnato la fine del predominio europeo e le feste nazionali che ne attestavano le vittorie rimangono oggi, più che esaltazioni di vita, omaggi ai morti, la cui scomparsa favorisce lo spirito di rinunzia e promuove l’abitudine al pentimento, due caratteristiche che restano agli antipodi della nostra stessa cultura.

Così Natale e Pasqua restano inni alla vita mentre oggi in occidente si vuole propagare l’ossessione della morte.

L’atmosfera creata dalla paura del Covid spinge questa tendenza al parossismo, suscita il ripiegamento su se stessi con la rinuncia alla festività gioiosa che accresce il piacere di ritrovarsi e di stare insieme sia alla Messa di mezzanotte o davanti ad una tavola generosamente imbandita.

La paura di vivere è diventata sinonimo di una vergogna: quella di essere se stessi.

La nostra civilizzazione deve ormai scriversi con l’inchiostro simpatico, quello che cancella gli uomini degni di ammirazione, il loro sesso o il loro colore.

Con la mondializzazione imperante il rapporto di forza si è invertito per cui oggi diventa basilare rinunziare all’imposizione di non essere se stessi.

Per questo bisogna iniziare una lotta quotidiana per riacquistare il diritto di parlare la nostra lingua, dimostrare la nostra cultura e dire liberamente “Felice Natale” e non “Buon fine anno”, perché questa espressione rimane legata alla parola fine mentre, al contrario, il Natale intimamente rappresenta proprio un inizio.

Eugenio Preta