Voglia di democrazia

Un pericolo in agguato che si profila molto più subdolo del virus e più pericoloso della crisi economica e sociale, è stato purtroppo, da molti, sottovalutato. Si tratta della paralisi del sistema politico improntato al corto termine. L’incapacità dello Stato, ridotto a mentire perché ha rinunciato da tempo alle sue prerogative e alla sua capacità d’azione, conseguenza del dogma aberrante dell’abbandono delle filiere agricole ed industriali che avrebbero dovuto sostituire il turismo e le politiche per il tempo libero e che, al contrario, ha determinato la distruzione del suolo e della biodiversità ed aumentato le emissioni dei gas serra generati da milioni di aerei, camion e porta-container giganti che hanno creato quelle fragilità organiche che il virus ha messo in risalto, specialmente nelle regioni a maggiore densità industriale.

Niente però di tanto estremo quanto il pericolo di vedere i cittadini tentati dalle chiusure, dal populismo e dai nazionalismi. Un pericolo rivelato da media e tivù relativamente alla loro narrazione “schierata” al dogma corrente, quindi ideologicamente corretta.

Con tutte le storie di delocalizzazione, tutte le critiche alla mondializzazione liberista, qualcuno avrebbe potuto anche cedere al fascino del lato oscuro. Fortunatamente esistono Trump, Johnson, Orbán e Bolsonaro, per ricordare ai temerari che il mondo di poi non si allontanerebbe molto da quello odierno. È stato sufficiente affibbiare loro la qualifica di pessimi e sovranisti e tutto si è risolto. Del resto di fronte all’epidemia i soprannominati si sono rivelati irresponsabili mentre, al contrario, un grande risalto ha avuto l’azione delle istanze federali dell’Unione europea, forse anche dimenticando che i Suoi trattati costitutivi hanno favorito la dismissione delle industrie ed hanno impedito ogni forma di indipendenza economica e strategica del Continente.

Poiché la mondializzazione ed il libero scambio avrebbero consentito a milioni di esseri umani di uscire dalla povertà, opporsi ai trattati di libero scambio,firmati quasi di nascosto dall’Ue con Vietnam o Messico, ad esempio, avrebbe significato opporsi veramente al progresso. Nessuno però dei soloni tecnocrati di Bruxelles si è mai chiesto se il problema sia stato effettivamente rappresentato più che dalla mondializzazione proprio da quella liberalizzazione che ha consentito che questa crescita di scambi e commerci sia avvenuta sulle spalle non dei più ricchi, che si sono arricchiti ancora di più, nè delle multinazionali che hanno raggiunto bilanci stratosferici e nascosto montagne di danaro nei paradisi fiscali creati ad hoc, ma sulle spalle delle classi medie e popolari dei paesi occidentali che, in più, vengono oggi considerati egoisti e cinici.

Questa socialdemocrazia al potere, come il neoliberismo dilagante hanno obbedito alla liberalizzazione, alle ossessioni gestionarie che hanno ridotto la portata dei servizi pubblici, hanno evitato di riformare la fiscalità, hanno operato la riduzione della produttività mascherandola da modernità, il protezionismo in nome della libera circolazione dei capitali.

Così, per evitare di confessare il fallimento, ci hanno convinto quanto Trump, Bolsonaro, Orban e gli altri, siano stati effettivamente pessimi. Forse sarà pure vero, ma non ci risulta che nel corso della pandemia si sia riscontrato un vero entusiasmo per il discorso nazionalista o autoritario. Quello che si è manifestato è stato invece una ricerca accresciuta di protezione nazionale, con il desiderio di ricalibrare le misure per salvaguardare il pianeta e con la necessità di ritrovare la promessa di quella giustizia cittadina che dà valore al nostro patto sociale. Un’esigenza di democrazia, in definitiva che, verosimilmente, ha fatto tanta paura agli “imbroglioni” della politica.

Eugenio Preta